Cosa spetta al dipendente che si dimette per giusta causa?
Come “licenziarsi” per giusta causa: ecco tutti i diritti che spettano al lavoratore e gli errori da non commettere.
Nel mondo del lavoro, la decisione di dimettersi può derivare da diverse motivazioni. Ci possono essere ragioni personali, una sopravvenuta disabilità, la volontà di dedicarsi alla famiglia o a sé stessi, la ricerca di posizioni lavorative più stimolanti. Ma vi sono anche le dimissioni per giusta causa, situazione questa che si verifica quando il rapporto tra dipendente e datore di lavoro si deteriora a causa di comportamenti gravemente inadeguati da parte del datore stesso. In pratica le dimissioni per giusta causa danno al dipendente lo stesso potere che l’azienda esercita in caso di licenziamento per giusta causa: ossia la possibilità di risolvere in tronco il contratto lavorativo in presenza di una grave violazione degli obblighi della controparte, tanto grave da non consentire la prosecuzione del rapporto neanche per un solo giorno.
Ma cosa spetta al dipendente che si dimette per giusta causa? Ha diritto ad essere risarcito per la perdita involontaria del posto di lavoro? Può pretendere indennità, TFR, ferie maturate e, non in ultimo, l’assegno di disoccupazione? Cerchiamo di capire quali sono i diritti del lavoratore in tali situazioni.
Indice
Cosa significa dimettersi per giusta causa?
Le dimissioni per giusta causa intervengono in situazioni di lavoro estremamente negative, dove il comportamento del datore di lavoro costituisce una seria e intollerabile violazione dei diritti del dipendente o dei termini del contratto di lavoro. Ecco alcuni esempi:
- omesso versamento (o grave e protratto ritardo) di più di due mensilità;
- omesso versamento dei contributi previdenziali;
- trasferimento non giustificato da ragioni organizzative e produttive;
- molestie sessuali;
- comportamento ingiurioso dei superiori gerarchici;
- richiesta di prestazioni contrarie alla legge, che integrino illeciti civili, amministrativi o penali;
- mobbing o straining;
- vessazioni e maltrattamenti sul luogo di lavoro;
- adibizione a mansioni di rango inferiore rispetto alla qualifica contrattuale (demansionamento);
- svuotamento delle mansioni attribuite al dipendente che così viene costretto a una forzata inattività, con conseguente pregiudizio alla propria professionalità;
- reiterata negazione delle ferie e dei riposi, con conseguente situazione stressogena o sindrome di bornout;
- mancata attuazione degli obblighi di sicurezza sul luogo di lavoro;
Dimissioni per disabilità e grave malattia sono per giusta causa?
Purtroppo l’attuale legge esclude che chi si dimette per cause collegate allo stato di saluto possa invocare la dimissione per giusta causa. Questi pertanto non potrà accedere all’assegno di disoccupazione.
Come si dimette un lavoratore per giusta causa?
Dimettersi per giusta causa richiede una comunicazione formale al datore di lavoro. È consigliabile inviare una lettera raccomandata o una PEC, dove si indicano i motivi della decisione.
La Cassazione ha di recente chiarito che le dimissioni orali sono del tutto inefficaci e non esplicano alcun effetto, con conseguente diritto del dipendente alla reintegra.
Nella lettera indirizzata all’azienda è necessario indicare gli episodi o i comportamenti che hanno portato alla decisione di “licenziarsi”.
Infine, per rendere effettive le dimissioni è necessario seguire la procedura telematica di comunicazione all’INPS. Questa può essere svolta autonomamente dal dipendente a mezzo del portale “servizi.lavoro.gov.it” con accesso tramite SPID o CIE. In alternativa si può delegare tale attività a patronati, commercialisti, sindacati, consulenti del lavoro, commissioni di certificazione.
Nel modulo online bisogna selezionare dal menu a tendina l’opzione “giusta causa
Una volta compilato il modulo online questo viene inviato subito in forma telematicaall’Ispettorato Territoriale del lavoro e al datore di lavoro tramite PEC.
L’azienda, a sua volta, è tenuta ad inviare il modello UniLav di cessazione, in via telematica, al fine di segnalare al Centro per l’impiego l’interruzione del rapporto.
Dimissioni per giusta causa: l’errore da non commettere
Non bisogna commettere l’errore di dimettersi per giusta causa e dare il periodo di preavviso. Il licenziamento per giusta causa infatti si caratterizza per l’interruzione immediata (ossia “in tronco”) del rapporto di lavoro. Quindi il dipendente non deve più recarsi in azienda già dal giorno successivo. Se invece, nel dare le dimissioni, rispettasse il periodo di preavviso e continuasse a lavorare, l’Inps non riconoscerebbe l’assegno di disoccupazione, negando la “giusta causa”. La ragione di tale interpretazione, avallata dalla Cassazione, è semplice: tanto il licenziamento quanto le dimissioni per giusta causa si caratterizzano per una violazione particolarmente grave, tanto da rompere definitivamente ogni legame di fiducia e rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto contrattuale. Chi invece continua, seppure per poco tempo, a svolgere le proprie mansioni sta di fatto negando la sussistenza di una causa “grave”.
Dunque, dimettersi per giusta causa esonera il lavoratore dal dovere di rispettare il periodo di preavviso.
Quali diritti spettano al dipendente che si dimette per giusta causa?
Veniamo ora alle prestazioni economiche spettanti al lavoratore che si dimette per giusta causa. Queste sono costituite da:
- indennità di preavviso: il dipendente ha rinunciato allo stipendio durante il periodo di preavviso, stante la risoluzione in tronco del rapporto di lavoro. Pertanto il datore di lavoro deve indennizzarlo con una somma parametrata alla durata del rapporto di lavoro e all’inquadramento contrattuale, per come calcolata dal contratto collettivo;
- TFR: il dipendente che si dimette per giusta causa ha diritto all’immediata erogazione del Trattamento di fine rapporto. Tuttavia il CCNL potrebbe prevedere dei termini di pagamento più ampi;
- ultime mensilità: il dipendente ha diritto al pagamento dell’ultima mensilità per i giorni lavorati e di eventuali arretrati non ancora corrisposti;
- ferie: il datore di lavoro deve liquidare al dipendente dimissionario le ferie maturate sino ad allora. Questo è l’unico caso in cui è possibile monetizzare le ferie, per il resto dovendo sempre essere fruite per obbligo di legge;
- ratei: tutti i ratei di tredicesima e quattordicesima devono essere liquidati allo scioglimento del rapporto di lavoro;
- NASPI: non in ultimo, il dipendente che si dimette per giusta causa ha diritto a chiedere all’INPS l’assegno di disoccupazione, non essendo imputabile alla sua volontà la risoluzione del rapporto di lavoro. Quanto alla NASPI però devono sussistere alcune condizioni che vedremo nel paragrafo seguente.
Come ottenere la NASPI in caso di dimissioni per giusta causa
In caso di dimissioni per giusta causa il dipendente ha diritto all’assegno di disoccupazione dell’INPS (la cosiddetta NASPI). A tal fine però deve essere in possesso di tutti i seguenti requisiti:
- essere ancora disoccupato (o, se occupato come dipendente, non avere un reddito superiore a 8.000 euro annui o, se autonomo, non avere un reddito superiore a 5.500 euro annui);
- aver pagato i contributi per almeno 13 settimane nei quattro anni prima di perdere il lavoro.
Per chiedere la NASpI, devi compilare un modulo online sul sito dell’INPS. Puoi farlo utilizzando il tuo SPID, la Carta d’Identità Elettronica (CIE) o la Carta Nazionale dei Servizi (CNS).
Se non riesci a farlo online, puoi anche:
- chiamare il numero 803.164 (gratuito da telefono fisso) o lo 06.164.164 da cellulare;
- andare in un patronato o presso altri intermediari autorizzati dell’INPS che ti aiuteranno a compilare la domanda.
Ricorda che devi inviare la tua richiesta entro 68 giorni dalla fine del tuo lavoro. Se non lo fai in questo periodo, potresti perdere il diritto a ricevere l’assegno di disoccupazione NASPI.
Entro quanto tempo richiedere la NASPI?
La NASPI va richiesta entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro con alcune eccezioni. Ad esempio, se �� in corso una causa con il datore di lavoro, il termine di 68 giorni decorre dalla data di definizione della vertenza sindacale o dalla notifica della sentenza del tribunale.
Invece, se le dimissioni sono per maternità indennizzabile insorta entro i 68 giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, il termine resta sospeso per un periodo pari alla durata dell’evento di maternità indennizzato e riprende a decorrere, al termine dell’evento, per la parte residua.