La polizia deve avere dei codici identificativi sulle divise?

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Qual è la normativa in Italia e in Europa; perché i numeri sui caschi degli agenti non sono ancora previsti; pro e contro del sistema di riconoscimento; quali sono le soluzioni praticabili.

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Ogni volta che c’è una manifestazione che crea problemi di ordine pubblico, e le forze dell’ordine caricano i dimostranti prendendoli a manganellate, scoppiano le polemiche e sorge nell’opinione pubblica un’importante domanda: la polizia deve avere dei codici identificativi sulle divise?

Perché identificare gli agenti con dei codici?

Tutti sanno che in occasione delle manifestazioni i poliziotti sono in

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tenuta antisommossa, e quindi indossano caschi, tute e scudi che ostacolano, o impediscono del tutto, il riconoscimento del viso. E si sa anche che in situazioni di confusione, come quelle di assembramenti turbolenti, cortei lungo le vie e proteste in piazza, c’è parecchio movimento: le persone – compresi gli agenti – si spostano continuamente ed è difficile, a posteriori ma anche sul momento, individuare con precisione chi, nel folto gruppo degli uomini e donne in divisa, ha compiuto determinati gesti ed atti illeciti, come le percosse e le lesioni personali.

Tutto questo può compromettere seriamente la possibilità di identificazione degli agenti che si rendono protagonisti di atti di violenza nei confronti dei dimostranti. Secondo il diritto penale, ogni condotta costituente reato è personale e non può essere attribuita in blocco, ad esempio, a un intero reparto mobile impiegato nel sedare le condotte dei facinorosi, o talvolta di manifestanti innocui e palesemente disarmati, come gli studenti delle scuole superiori, e di giornalisti che stanno svolgendo i propri compiti di informazione riprendendo ciò che accade.

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Qui l’abuso della forza è evidente, e occorre individuare i modi più efficaci per prevenire e punire questi fenomeni. Una delle proposte più gettonate in tal senso è proprio quella di applicare dei codici identificativi sulle uniformi, ma c’è un’ampia diversità di vedute. Vediamo perché questo accade e come si potrebbe risolvere il problema salvaguardando le esigenze dei cittadini che manifestano in modo non violento ed anche le preoccupazioni degli stessi poliziotti, che in massima parte considerano rischioso questo sistema.

Qual è l’ostacolo all’adozione dei codici identificativi sulle divise?

In realtà il problema dei codici identificativi sulle divise si pone da decenni, ma ancora non è stato risolto a livello normativo in Italia (diversamente da quanto è accaduto in altri Paesi europei, che si sono dotati da tempo di regole specifiche). Lo scoglio maggiore per adottare anche in Italia una normativa in tal senso è la preoccupazione per la privacy dei poliziotti coinvolti nel sedare gli scontri con i manifestanti: se è vero che etichettarli serve, indubbiamente, per individuare chi ha compiuto atti illeciti, è anche vero che rendere pubblici i loro dati identificativi potrebbe pregiudicare la loro

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sicurezza personale e talvolta mettere a rischio la loro stessa incolumità.

I codici identificativi sono necessari per individuare i poliziotti responsabili di violenze, ma possono mettere a rischio la sicurezza degli operatori.

Insomma, bisogna bilanciare due opposte e altrettanto importanti esigenze, ma finora il nostro legislatore non c’è riuscito, e – dobbiamo dirlo – non si è neppure impegnato a fondo per risolvere il problema. Dopo aver spiegato cosa sta succedendo, alla fine di questo articolo ti indicheremo quali soluzioni potrebbero, e forse dovrebbero, arrivare per garantire maggior tutela a tutti i cittadini e impedire gli abusi dei poliziotti, salvaguardando però la loro riservatezza personale.

Le diverse posizioni politiche sui codici identificativi dei poliziotti

Semplificando la questione al massimo, a livello politico la sinistra, più sensibile alle libertà dei cittadini di manifestare ed esprimere pubblicamente la propria opinione, si è fatta promotrice di diversi disegni di legge volti a prevedere i codici identificativi sulle uniformi e sui caschi dei poliziotti, mentre la

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destra, più attenta al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, ha contrastato queste proposte e ne ha impedito quell’approvazione parlamentare, che per necessità di cose – visto l’impatto sociale della tematica – deve auspicabilmente essere condivisa dalla maggioranza di governo e dalle minoranze, anziché essere frutto dell’iniziativa di un singolo gruppo.

Manifestazioni, raduni e cortei: vanno autorizzati?

Contrariamente a quanto si crede e si sente dire, le manifestazioni nei luoghi pubblici non devono essere preventivamente autorizzate: la necessità di un permesso rilasciato dalle autorità violerebbe la libertà di espressione del pensiero, sancita dall’articolo 21 della Costituzione, e, prima ancora, il dispositivo dell’articolo 17 della Costituzione, in base al quale: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Perciò manifestare è un diritto democratico, e in quanto tale va riconosciuto, e ove occorra regolamentato, ma non deve essere autorizzato.

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È prevista, invece, a cura degli organizzatori, a norma dell’articolo 18 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza la comunicazione preventiva – che deve essere data per iscritto e almeno tre giorni prima – alla Questura del luogo, giorno ed orario del raduno pubblico di qualsiasi tipologia (manifestazione di protesta, ma anche processione religiosa), e bisogna indicare pure il numero presumibile dei partecipanti, le strade percorse dal corteo, e le piazze di riunione, in cui si svolgerà la manifestazione.

Il Questore, ricevuta la comunicazione, può, per ragioni di ordine pubblico, o anche – così dispone il TULPS – per motivi «di moralità e di sanità pubblica», impartire prescrizioni sui tempi e sulle modalità di svolgimento della manifestazione. Contestualmente, il Questore predispone i necessari servizi di ordine e sicurezza pubblica, con l’impiego delle forze di Polizia presenti sul territorio, la cui entità e consistenza è variabile in relazione al tipo di manifestazione e di partecipanti (nei casi più impegnativi, viene riunito l’apposito Comitato presso la Prefettura territorialmente competente).

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Nei casi estremi, il Questore può disporre il divieto di manifestare, con provvedimento motivato che deve esporre i motivi di turbamento dell’ordine pubblico ravvisati nella situazione concreta e, possibilmente, indicare un differimento temporale o uno spostamento del luogo di svolgimento (ad esempio, perché quella piazza, in quello stesso giorno ed orario, è già stata assegnata a manifestanti della fazione opposta).

Quindi l’autorità di pubblica sicurezza ai vari livelli può decidere di vietare determinate manifestazioni, o di disporre che non si svolgano in alcuni luoghi e periodi temporali, se ritiene che ciò possa mettere a rischio l’ordine pubblico e turbare la sicurezza dei cittadini.

Cariche della polizia: come funzionano?

I reparti della Polizia di Stato – coadiuvati dai Carabinieri e dal personale dei reparti di pronto impiego della Guardia di Finanza – in assetto antisommossa possono usare la forza fisica quando è assolutamente necessario per sedare comportamenti violenti o pericolosi posti in essere dai manifestanti.

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Si pensi a chi lancia bottiglie incendiarie, o oggetti contundenti come mazze e bastoni, o è munito di fuochi e petardi, e a gruppi di dimostranti che cercano di forzare o di aggirare un blocco per accedere ad un’area non autorizzata e sensibile per la sicurezza pubblica, come un’ambasciata, la sede del Parlamento o di un’altra istituzione (sede di un Consiglio regionale, municipio, ecc.), oppure un insediamento militare, una scuola o un ospedale.

Per questo motivo gli agenti vengono dotati di appositi materiali ulteriori rispetto alla normale uniforme d’istituto: caschi protettivi, scudi, elmetti, manganelli, manette e armi da fuoco.

Se la radunata risulta pericolosa per l’ordine pubblico, il funzionario di Polizia che dirige il contingente deve innanzitutto invitare i manifestanti a disperdersi e, se essi non ottemperano, impartisce tre successive intimazioni, con squilli di tromba o anche a voce, purché ben udibile (ad esempio, amplificandola con un megafono).

Solo se nonostante ciò i dimostranti persistono e dimostrano un atteggiamento ostile, la Polizia può effettuare le cosiddette

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cariche, cioè passare all’offensiva avanzando ed usando anche i mezzi di coazione fisica, come i manganelli, per percuotere i manifestanti, a condizione, però, che tutti questi strumenti – compresi quelli più blandi, come gli sfollagente – vengano impiegati con la dovuta proporzionalità tra difesa ed offesa, cioè nei limiti dello stretto necessario per vincere la violenza in atto e impedire la realizzazione di eventi criminosi o lesivi per la sicurezza pubblica (sarebbe illegittimo, ad esempio, inseguire e bastonare manifestanti isolati, che non intraprendono nessuna reazione e sono palesemente inermi).

Codici identificativi poliziotti: la normativa europea

Nel 2012 il Parlamento dell’Unione Europea ha adottato una risoluzione che esortava gli Stati membri ad introdurre apposite misure di identificazione del personale di polizia impiegato nelle manifestazioni. Ad oggi, 20 Stati su 28 (comprendendo anche il Regno Unito, che nel 2020 ha abbandonato l’UE applicando la Brexit) hanno adottato un’apposita normativa al riguardo. Ad esempio, in

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Francia gli agenti devono portare sulla divisa un codice ben visibile, ad eccezione di coloro che sono impiegati in servizi antiterrorismo o in attività riservate, e in Germania l’obbligo per gli agenti di esporre il numero identificativo è previsto (non per l’intera polizia federale, bensì a macchia di leopardo, solo in alcuni land territoriali (tra cui Berlino).

Ma tra questi Paesi che hanno deciso di adottare codici, sigle, targhette identificative o altri sistemi analoghi non c’è ancora l’Italia, che, considerata la sua evoluzione economica e sociale, rappresenta, purtroppo, il fanalino di coda (insieme ad Austria, Olanda, Lussemburgo e Cipro).

Conviene riportare qui testualmente l’esortazione formulata dal Parlamento Europeo nel 2012, per capire di che si tratta: nella sezione del documento dedicata ai «Diritti delle vittime e accesso alla giustizia», il consesso [1]:

Un’analoga raccomandazione era stata formulata nel 2001, all’indomani dei fatti del

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G8 di Genova, dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, in occasione dell’approvazione del Codice etico della Polizia, secondo cui: «di norma, nel corso di un intervento, il personale di polizia deve essere in condizione di dimostrare il proprio grado e la propria identità professionale» [2].

Sulla stessa scia, nel 2016 anche il Consiglio sui diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), in un documento sulle libertà di assemblea e di associazione, aveva raccomandato che «i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero».

I suddetti atti, però, non hanno valore vincolante, e costituiscono soltanto dei semplici consigli per gli Stati destinatari. Vale a dire che l’Italia non ha un obbligo, imposto dall’Unione Europea o da altri organismi sovranazionali di cui fa parte, di adottare il codice identificativo per gli operatori di Polizia.

Situazione in Italia: le proposte di legge sui codici identificativi degli agenti

In Italia sono stati presentati, negli ultimi anni, numerosi

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disegni di legge per regolamentare il fenomeno ed introdurre l’uso di codici identificativi per gli agenti.

Tra le più recenti proposte in tal senso, va ricordata quella avanzata nel 2023 dalla senatrice Ilaria Cucchi (parlamentare di Sinistra Italiana) che prevede anche l’adozione di bodycam per gli agenti, in modo da ricostruire compiutamente la scena e le condotte poste in essere dai dimostranti. Altre proposte analoghe sono quelle presentate nel 2019 dalla parlamentare Dem Giuditta Pini, da un gruppo di deputati del Gruppo Misto (ex M5S) tra cui Gregorio De Falco, e da diversi deputati di Sinistra Italiana (tra cui il segretario del partito, Nicola Fratoianni), di + Europa (Riccardo Magi) di Alleanza Verdi e del PD (a firma dell’on. Laura Boldrini e Cecilia d’Elia).

Tutte queste proposte di legge si sono arenate nelle Commissioni parlamentari competenti all’esame preliminare, e nessuna di esse è sinora giunta all’esame da parte dell’Aula di Montecitorio (Camera dei Deputati) o di Palazzo Madama (Senato della Repubblica) per l’approvazione.

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È interessante notare, per inciso, che nel 2019 il contratto per il “Governo del cambiamento”, stipulato d’intesa tra il Movimento 5 Stelle e la Lega (il cosiddetto governo gialloverde) prevedeva – al paragrafo 23, intitolato «Sicurezza, legalità e forze dell’ordine» –testualmente: «Si dovranno dotare tutti gli agenti che svolgono compiti di polizia su strada di una videocamera sulla divisa, nell’autovettura e nelle celle di sicurezza, sotto il controllo e la direzione del Garante della privacy, con adozione di un rigido regolamento, per filmare quanto accade durante il servizio, nelle manifestazioni, in piazza e negli stadi».

Bodycam agli agenti: sono alternative o complementari ai codici identificativi?

Nel frattempo il ministero dell’Interno, già nel 2022, aveva autorizzato con una circolare l’impiego delle bodycam, le microtelecamere da apporre sulle divise degli agenti dei reparti mobili impiegati in servizi di ordine pubblico.

Le bodycam per i poliziotti ci sono già ma sono poche

Si tratta, però, soltanto di meno di 1000 dispositivi (700 alla Polizia di Stato e 249 ai Carabinieri). Le

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registrazioni possono essere acquisite dall’Autorità giudiziaria in caso di apertura di un procedimento penale e in ogni caso devono essere conservate dalla forza di Polizia di appartenenza, su un apposito server, per almeno 6 mesi, dopodiché possono essere cancellate se la vicenda non è diventata oggetto di indagine. Te ne abbiamo parlato ampiamente nell’articolo “Bodycam: la Polizia può usarle?”.

In effetti le bodycam potrebbero essere un ottimo strumento di prevenzione e individuazione degli abusi, anche a garanzia dei poliziotti stessi, quando dai filmati emergono aggressioni nei loro confronti e dunque si rivela la necessità di ricorrere alla forza fisica per legittima difesa. Non è un caso che i sindacati di polizia sono ampiamente favorevoli all’uso diffuso delle bodycam per gli agenti, mentre sono prevalentemente contrari all’introduzione dei codici identificativi dei poliziotti.

Identificazione dei poliziotti in Italia: come funziona?

Attualmente, i poliziotti in borghese (compresi in questa dicitura anche i Carabinieri, gli appartenenti alla Guardia di Finanza e ai corpi di Polizia locale) se non sono in uniforme, e dunque quando vestono abiti civili, sono tenuti a identificarsi, su richiesta del cittadino con cui interloquiscono, mediante

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esibizione del tesserino personale di riconoscimento (salvi i casi in cui operino sotto copertura per lo svolgimento di specifici servizi, come gli infiltrati in un’organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti).

Questo meccanismo, se può funzionare nei rapporti “one to one”, come i controlli di Polizia su strada e le perquisizioni di singoli soggetti, non è invece assolutamente adatto a far riconoscere chi, tra i numerosi appartenenti ad un reparto mobile in uniforme, con gli agenti dotati di caschi protettivi, ha compiuto determinate azioni. In questi casi non si mette in dubbio la loro qualità di appartenenti alle forze dell’ordine, bensì il loro operato nella situazione concreta. Da qui sorge la necessità di usare sistemi identificativi ben visibili anche a distanza, un po’ come avviene per le targhe degli autoveicoli e le magliette dei calciatori.

Codici identificativi degli agenti: le possibili soluzioni

Se la possibilità di mettere una targhetta o una qualsiasi etichetta con il nome e cognome degli agenti appare da escludere, in quanto non garantirebbe il dovuto

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anonimato agli operatori delle forze dell’ordine, l’uso di un codice alfanumerico sembra invece in grado di garantire questa fondamentale esigenza, consentendo, al contempo, di individuare i singoli appartenenti al reparto di polizia incaricato di controllare una manifestazione pubblica.

A livello tecnico, le soluzioni praticabili per dotare gli agenti di un codice identificativo sono diverse e tutte ugualmente praticabili ed efficaci: si potrebbe, ad esempio, e in sintonia con quanto già avvenuto in altri Paesi europei, applicare un head number sul casco protettivo, o un collar number con una targhetta sulla zona del collo, o due shoulder number, sulle spalle destra e sinistra.

Una soluzione che potrebbe ben contemperare le opposte esigenze che abbiamo analizzato sarebbe quella di adottare un numero identificativo di volta in volta diverso, e dunque variabile ad ogni evento di piazza, in modo da evitare di associare permanentemente un determinato poliziotto allo stesso codice univoco; altrimenti quell’agente così

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etichettato in maniera fissa potrebbe diventare riconoscibile in anticipo e dunque diventare un facile bersaglio dei manifestanti più organizzati, violenti e facinorosi, anche per ritorsione nei suoi confronti.

Questo non precluderebbe affatto la possibilità di risalire ai responsabili di atti illeciti, perché ogni numero, o codice alfanumerico sarebbe sempre associato, e dunque inequivocabilmente riferito, a un preciso agente, che ha preso parte alle attività di ordine pubblico in occasione dell’evento da analizzare e ricostruire.

Il numero identificativo, che potremmo definire “targa del poliziotto”, dovrebbe essere apposto in maniera ben visibile sul casco e/o sulla parte anteriore e posteriore dell’uniforme (pettorale e schiena) in modo da poter essere facilmente individuato, anche a distanza, e attraverso le telecamere che riprendono l’evento (pubbliche ed anche private, come i filmati fatti dai partecipanti con i loro smartphone), oppure riferito dalle testimonianze più attendibili.

Una volta rilevato il numero di chi ha compiuto

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atti illeciti (ad esempio, ha inseguito e picchiato col manganello manifestanti disarmati) sarebbe possibile, per la magistratura inquirente, o anche direttamente per gli interessati, con il diritto di accesso da esercitare nei confronti della forza di polizia di appartenenza, ottenere il nominativo del poliziotto responsabile, e far valere nei suoi confronti i propri diritti in sede civile e penale, dalla querela con richiesta di punizione del colpevole nel processo al risarcimento dei danni subiti dalle persone offese. Ma il dato dell’identificazione potrebbe servire anche alle stesse Amministrazioni di appartenenza degli agenti che hanno compiuto eccessi, per avviare nei loro confronti il procedimento disciplinare e adottare le conseguenti sanzioni sullo stipendio e sulla carriera e, nei casi più gravi, sulla stessa permanenza in servizio attivo nei Corpi di polizia.

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