Dire che si risolverà in una sede idonea è minaccia
Quando ricorrono gli estremi del reato di minaccia e di calunnia. Cosa significa “agire presso le opportune sedi”.
Un nostro lettore ci chiede se dire a una persona che “la faccenda si risolverà in una sede idonea” o anche “presso le opportune sedi” costituisce una minaccia e quindi un reato.
La questione presuppone alcune nozioni base sul reato di minaccia, di cui peraltro abbiamo già dato conto nell’articolo Quali sono le minacce verbali.
Sul punto è bene innanzitutto rammentare che il reato in commento, previsto dall’articolo 612 del Codice penale, presuppone che il verificarsi dell’evento minacciato dipenda dall’azione e, quindi, dal volere dell’agente. Dire “Ti auguro di fallire” o “di avere una brutta malattia” non integra una minaccia, perché vengono augurati eventi (rispettivamente l’insuccesso commerciale o un problema di salute) che derivano da fatti estranei alla sfera del presunto reo.
In secondo luogo, è necessario che venga minacciato un “danno ingiusto”. Dire ad esempio ad un ladro “Farò in modo che la polizia sappia ciò che hai fatto” non è un reato se la condotta commessa dalla presunta vittima integra un illecito penale.
Veniamo ora ad analizzare il significato della parola «Risolveremo la faccenda “presso le opportune sedi”» o «in sede idonea» sta a indicare, nel gergo comune, l’aula di Tribunale o una competente autorità amministrativa (ad esempio l’Ispettorato del Lavoro per quanto attiene alle vertenze lavoristiche). Anche le stesse lettere legali spesso terminano proprio con questa clausola di stile.
Dunque, dire “Regoleremo i conti in sede idonea” non significa “con un duello” o “con una vendetta per strada”.
Detto ciò, è bene ricordare che:
- il ricorso al giudice o alle autorità è garantito dalla Costituzione (art. 24) a tutti i cittadini, sia a chi ha ragione che a chi ha torto. Nel caso infatti in cui l’azione giudiziale non dovesse essere accolta, esistono appositi meccanismi per compensare del danno la parte ingiustamente coinvolta nella vertenza giudiziale quale la “condanna alle spese processuali” o il “risarcimento per lite temeraria” (art. 92 cod. proc. civ.);
- l’eventuale successo dell’azione non dipende dal volere dell’agente, ma dall’azione dell’autorità giudiziaria o amministrativa.
Proprio per queste due ragioni
- non c’è innanzitutto il “danno ingiusto”, atteso che, come anticipato, l’avvio del contenzioso presso la “sede idonea” è un diritto (anche laddove, come detto, il diritto dovesse essere insussistente);
- manca inoltre il dipendere dell’eventuale evento ingiusto (la condanna dell’innocente) da parte dell’agente: è sempre il giudice – soggetto terzo e imparziale – a decidere l’esito della vertenza.
Anche se una persona dovesse minacciare un’altra di agire contro di lei pur sapendo che è innocente, la sua condotta integrerebbe – solo se portata a termine dinanzi a un giudice penale – il reato di calunnia e non già quello di minaccia (calunnia che, peraltro, è punito più gravemente). Ma affinché ciò avvenga è necessario agire in malafede contro una persona che si sa essere innocente. Non ricorre la calunnia quando una persona denuncia o querela un’altra ignorando la corretta interpretazione della legge penale o in assenza di prove: mancherebbe l’elemento della malafede.