Lavoratore rifiuta la modifica del contratto: ha diritto alla Naspi?
Se il dipendente non accetta la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a full time o da tempo determinato a indeterminato ha due possibilità per ottenere l’assegno di disoccupazione.
Il lavoro dipendente subordinato può essere classificato in quattro principali categorie: full time, part time, a tempo indeterminato e a termine. Supponiamo che un datore di lavoro voglia trasformare il tipo di contratto di un dipendente, ad esempio passando da un rapporto full time a part time o da un contratto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato. Potrebbe farlo senza il consenso dell’interessato? E, in tal caso, se il lavoratore rifiuta la modifica del contratto ha diritto alla Naspi
La modifica del contratto di lavoro può essere legittima solo laddove giustificata da valide ed oggettive esigenze produttive e organizzative. Il datore, per quanto non è tenuto, in prima battuta, a motivare la modifica contrattuale, deve essere pronto a dimostrare che la stessa poggia su circostanze effettive e verificabili e non magari su intenti discriminatori o ritorsivi.
Semmai infatti il dipendente dovesse rifiutare la trasformazione del contratto e il datore, proprio perciò, dovesse licenziarlo, detto licenziamento sarebbe nullo e comporterebbe la reintegra sul posto di lavoro, con l’obbligo del risarcimento del danno pari alle mensilità perse. Il lavoratore che rinunci alla reintegra potrà comunque ottenere l’assegno di disoccupazione.
In caso invece di dimissioni volontarie, il dipendente che assuma tale iniziativa, in quanto non disponibile alle nuove condizioni, perde l’assegno di disoccupazione
Il dipendente che voglia ottenere la disoccupazione perché non accetta la modifica del contratto di lavoro ha quindi due alternative:
- rifiutare la trasformazione del contratto e lasciare che sia il datore a licenziarlo per insubordinazione (difatti, come chiarito più volte dall’Inps stesso, la Naspi spetta anche in caso di licenziamento per giusta causa, determinato cioè da una grave condotta del lavoratore);
- oppure dimostrare che la modifica del contratto si basa su intenti discriminatori o di vendetta, rassegnando così le dimissioni per giusta causa. Solo queste ultime infatti, in quanto non imputabili a una scelta libera del lavoratore, consentono di ricevere la Naspi dall’Inps.
Di certo, sarebbe molto difficile dimostrare l’intento ritorsivo o discriminatorio quando la proposta di modifica del contratto è migliorativa e non peggiorativa (ossia da part time a full time o da contratto a termine in uno a tempo indeterminato).
Sul potere del datore di modificare unilateralmente il contratto di lavoro del dipendente si è detto molto in giurisprudenza. L’orientamento maggioritario esclude che questo potere possa essere esercitato arbitrariamente, senza cioè la prova dell’effettiva esigenza. Il tribunale di Bologna, con una sentenza piuttosto rigida nella sua impostazione, ha di recente detto che il datore di lavoro non può modificare l’orario di lavoro del dipendente part time indicato nel contratto individuale anche se dovesse cambiare l’assetto organizzativo in modo tale da rendere incompatibile l’originario turno di lavoro con le esigenze aziendali. Secondo la pronuncia, il contratto di lavoro a tempo parziale al 50%, con cui è stata assunta una lavoratrice per svolgere la mansione di consulente telefonico, stabiliva espressamente che la durata della prestazione di lavoro, fissata in 19 ore e 10 minuti settimanali, pari a 3 ore e 50 minuti giornalieri, avrebbe seguito il regime orario e le matrici di turnazione indicate nella tabella allegata al contratto stesso. Quindi l’azienda ha agito correttamente nella fase di costituzione del rapporto rispettando le regole formali e sostanziali previste dalla legge. Il problema è nato successivamente.
A seguito di esigenze sopravvenute, l’azienda ha dovuto modificare la durata del servizio su tutto il territorio nazionale, eliminando tutte le matrici orarie e di turnazione esistenti e ha introdotto, per il personale part time al 50 e al 75 % impiegato di pomeriggio, una apposita matrice con unico turno fisso che risultava prossimo a quelli indicati nei contratti individuali e compreso all’interno della fascia oraria complessiva dei precedenti turni. La modifica è stata oggetto di un accordo con i sindacati.
La lavoratrice ha contestato la scelta aziendale, ha evidenziato le sue particolari esigenze personali e familiari, con conseguente danno di cui ha chiesto il ristoro.
Secondo il giudice, in base ai principi generali, in mancanza di clausole di flessibilità inserite nel contratto, deve ritenersi necessario il consenso del lavoratore a ogni modifica degli orari della prestazione, come specificati nel contratto individuale di lavoro indipendentemente dalle cause che la originano e anche se concordato con le organizzazioni sindacali e anche se in quegli orari l’azienda non eroga alcun servizio e l’unità produttiva è chiusa.
Un profilo interessante che emerge dalla sentenza è rappresentato dal fatto che il giudice non accoglie la domanda di risarcimento del danno poiché dall’istruttoria svolta non è emerso alcun concreto pregiudizio in danno della ricorrente, conseguente alle modifiche orarie imposte anche tenendo conto che per buona parte del tempo ha svolto il lavoro da remoto. Quindi il giudice conferma le regole generali sul risarcimento del danno ribadendo il principio che esso va provato e non è in re ipsa, come altri Tribunali avevano affermato.