Matrimonio breve senza convivenza: spetta il mantenimento?

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La breve durata o la mancata convivenza non negano l’assegno di mantenimento. Ma se manca una vera vita comune fin dall’inizio, può non spettare. Niente assegno se i coniugi si fanno la loro vita.

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Il matrimonio, nell’immaginario collettivo e nell’ordinamento giuridico, è visto come un progetto di vita comune, basato sulla comunione spirituale e materiale. A volte, però, questo progetto si interrompe precocemente, magari dopo pochi mesi dalla celebrazione, e talvolta senza che i coniugi abbiano nemmeno avuto modo di instaurare una vera e propria convivenza o una routine condivisa. Quando un’unione così breve giunge alla separazione, sorgono interrogativi riguardo alle conseguenze legali, in particolare per quanto concerne l’obbligo di versare un assegno di mantenimento all’ex coniuge economicamente più debole. La domanda diventa pressante: per un

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matrimonio breve senza convivenza, spetta il mantenimento? La legge prevede delle condizioni precise per il riconoscimento di tale diritto, ma come si applicano a situazioni limite in cui il vincolo coniugale è esistito più sulla carta che nei fatti? Una sentenza della Corte di Cassazione (n. 9207 dell’8 aprile 2025) ha affrontato proprio un caso di questo tipo, offrendo chiarimenti importanti che sfumano le regole generali e introducono il concetto fondamentale di “communio omnis vitae” come possibile discrimine.

A quali condizioni spetta il diritto all’assegno di mantenimento dopo la separazione?

L’articolo 156 del Codice Civile stabilisce le condizioni fondamentali affinché uno dei coniugi abbia diritto a ricevere dall’altro un assegno di mantenimento a seguito della separazione personale. Come ribadito anche dalla sentenza della Cassazione n. 9207/2025, queste condizioni sono cumulative, cioè devono sussistere tutte:

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  • mancanza di addebito: la separazione non deve essere “addebitabile” (cioè imputabile per colpa) al coniuge che richiede l’assegno. Se la separazione viene pronunciata con addebito a carico del richiedente (ad esempio, per violazione dei doveri coniugali come la fedeltà o l’assistenza), questi perde il diritto al mantenimento (potrebbe conservare solo il diritto agli alimenti, se ne ricorrono i presupposti di stato di bisogno assoluto);
  • mancanza di redditi adeguati: il coniuge richiedente non deve disporre di “adeguati redditi propri”. Per “adeguati” si intendono redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita adeguato al contesto in cui vive (a prescindere invece da quanto beneficiato durante il matrimonio). Se il richiedente ha un reddito sufficiente a mantenersi da solo, a prescindere da quello dell’ex, il giudice non gli riconoscerà alcun mantenimento;
  • assenza di colpa: la situazione di incapacità economica del richiedente non deve essere a lui imputabile. Il che significa che non può essere chiesto il mantenimento da chi non abbia lavorato per propria scelta (e non come decisione condivisa con l’ex) o che ha un titolo professionale, è giovane, è inserito nel mercato del lavoro e quindi ha ancora una potenzialità reddituale. Al contrario è dovuto il mantenimento alla donna che, d’accordo con il marito, ha deciso di fare la casalinga, badare alla casa e ai figli, rinunciando o sacrificando le proprie ambizioni lavorative.

Se queste tre condizioni sono presenti, il diritto all’assegno di mantenimento sorge.

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La breve durata del matrimonio è un motivo sufficiente per negare l’assegno di mantenimento?

La Corte di Cassazione, anche nella recente sentenza 9207/2025, ha precisato che la breve durata del matrimonio non esclude a priori il diritto all’assegno. Se le tre condizioni viste sopra (mancanza di addebito, mancanza di redditi adeguati, disparità economica) sussistono, il diritto al mantenimento nasce indipendentemente da quanto tempo sia durata l’unione coniugale.

Tuttavia, la breve durata dell’unione può assumere rilievo in una fase successiva, ovvero nella determinazione della misura (quantum) dell’assegno. È logico pensare che un matrimonio durato pochi mesi possa giustificare un assegno di importo inferiore rispetto a un’unione protrattasi per decenni, a parità di altre condizioni, perché il tenore di vita “goduto in costanza di matrimonio” potrebbe essere stato meno consolidato o più difficile da determinare. Ma la durata, da sola, non cancella il diritto se i presupposti ci sono.

Spetta il mantenimento se i coniugi non hanno mai effettivamente convissuto sotto lo stesso tetto?

L’articolo 156 del Codice Civile, nel fissare le condizioni per l’assegno di mantenimento,

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non menziona l’effettiva convivenza tra i requisiti necessari. La Cassazione ha sottolineato che la mancata convivenza può dipendere da molteplici ragioni o esigenze della coppia (lavoro in città diverse, scelte personali, ecc.) e, in assenza di prove contrarie, va intesa come una scelta che non esclude di per sé la comunione spirituale e materiale che caratterizza il matrimonio. Pertanto, la sola mancanza di coabitazione non può essere utilizzata per penalizzare uno dei coniugi o per ritenere estinti i diritti e doveri patrimoniali (come l’assistenza materiale) che nascono dal vincolo coniugale.

Ma allora perché la Corte di Cassazione, nella sentenza 9207/2025, ha confermato la decisione di negare l’assegno di mantenimento in un caso di matrimonio molto breve (pochi mesi) e senza convivenza stabile? Qui emerge la sfumatura introdotta o meglio valorizzata dalla pronuncia in commento. I giudici supremi hanno confermato la decisione della Corte d’Appello che aveva negato l’assegno alla moglie non basandosi

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semplicemente sulla breve durata (4 mesi) o sulla mancata convivenza (lei era tornata a vivere nella sua città d’origine). Il fattore decisivo è stato l’accertamento, da parte dei giudici di merito, che tra i coniugi non si era mai instaurata una vera “communio omnis vitae (comunione di tutta la vita) e che non vi era stata alcuna “condivisione del menage familiare”.

In altre parole, il matrimonio, al di là della celebrazione formale, non aveva mai avuto un inizio di vita concreta come unione basata sulla condivisione spirituale e materiale. La breve durata e la mancata convivenza sono state viste come sintomi o prove di questa assenza originaria di una reale comunione di vita, piuttosto che come cause autonome di esclusione del diritto.

Cosa si intende esattamente per “mancanza di una vera “communio omnis vitae” e perché è così importante per l’assegno di mantenimento?

La “communio omnis vitae et consortium omnis vitae” (comunione e consorzio di tutta la vita) è un concetto che risale al diritto romano e descrive l’essenza stessa del matrimonio come una partnership completa, che va oltre la mera formalità del vincolo giuridico. Implica:

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  • una condivisione di vita, non solo materiale ma anche spirituale;
  • un progetto comune;
  • assistenza reciproca;
  • contribuzione ai bisogni della famiglia;
  • una solidarietà coniugale effettiva.

Se i giudici accertano che questa comunione non è mai sorta tra i coniugi – che fin dall’inizio, ad esempio, hanno condotto vite separate, senza condivisione economica, senza supporto reciproco, senza un minimo di organizzazione familiare comune – allora possono concludere che il matrimonio è esistito solo “sulla carta”. In questo caso, viene a mancare il presupposto stesso su cui si fonda l’obbligo di assistenza materiale post-coniugale previsto dall’art. 156 c.c.: non si può parlare di mantenere un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio” se una vera vita matrimoniale condivisa, con un relativo tenore, non è mai stata instaurata.

Quando un matrimonio “lampo” e senza una vera vita comune comporta la negazione del mantenimento?

Sulla base della sentenza 9207/2025, l’assegno di mantenimento può essere negato, nonostante la potenziale sussistenza delle tre condizioni “classiche” (no addebito, no redditi adeguati, disparità), quando si riesce a

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dimostrare in giudizio che il matrimonio, pur formalmente valido, è stato del tutto privo di una effettiva attuazione come comunione di vita spirituale e materiale fin dal suo inizio.

Questo può accadere, ad esempio, se emerge che:

  • i coniugi non hanno mai intrapreso una convivenza nemmeno iniziale o l’hanno interrotta quasi subito senza validi motivi esterni;
  • hanno mantenuto vite completamente separate e autonome (residenze diverse, economie separate, frequentazioni separate);
  • non vi è stata alcuna forma di contribuzione reciproca o di condivisione delle spese o della gestione domestica;
  • il matrimonio appare, nei fatti, come un vincolo puramente formale, privo di qualsiasi sostanza di vita coniugale condivisa.

In questi casi “estremi”, i giudici possono ritenere che non sia sorto quel legame di solidarietà post-coniugale che giustifica l’imposizione di un assegno di mantenimento, perché la comunione di vita che ne è il presupposto non è mai esistita.

Quanto incide l’addebito?

Anche in un matrimonio breve e senza vita comune, se il coniuge che chiede l’assegno è quello a cui viene addebitata la separazione (ad esempio, per aver lasciato la casa senza giustificato motivo, configurando un abbandono), perderà comunque il diritto al mantenimento, indipendentemente dalla sua situazione economica o dalla disparità con l’altro coniuge. Nel caso specifico deciso dalla Cassazione, è interessante notare che il marito aveva chiesto l’addebito alla moglie (proprio perché aveva lasciato la casa dopo pochi mesi), ma evidentemente questa richiesta non era stata accolta nei gradi di merito (altrimenti la Cassazione non avrebbe nemmeno discusso del diritto all’assegno, che sarebbe stato escluso in partenza). La discussione si è quindi concentrata sulla sussistenza degli altri presupposti, valorizzando l’assenza di una “communio vitae”.

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