Divorzio in Italia: come funziona e cosa è cambiato?

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Guida completa alla separazione e al divorzio in Italia. Dai tempi di attesa sempre più brevi (il “divorzio breve”) alle grandi evoluzioni sull’assegno divorzile: non si parla più di “tenore di vita”, ma di una funzione compensativa.

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Parlare di fine del matrimonio, di separazione e di divorzio è sempre delicato, ma è una realtà che fa parte della nostra società da oltre cinquant’anni. Da quando, nel 1970, il matrimonio in Italia ha cessato di essere indissolubile, le regole del gioco sono cambiate continuamente. Il percorso per arrivare a uno scioglimento del vincolo coniugale, che un tempo era lungo e complesso, è stato oggetto di continue accelerazioni e semplificazioni. Allo stesso tempo, il cuore della “partita” che si gioca quando un matrimonio finisce – quello relativo ai nodi patrimoniali e, in particolare, all’assegno divorzile – ha subito delle vere e proprie rivoluzioni giurisprudenziali. In questa guida vedremo

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come funziona il divorzio in Italia e cosa è cambiato più di recente, anche grazie alla Riforma Cartabia. Ripercorreremo la storia della normativa, analizzando le procedure attuali e spiegando come si è trasformato il criterio per il riconoscimento dell’assegno all’ex coniuge.

Perché in Italia il divorzio è arrivato così tardi ed è legato alla separazione?

Per capire la struttura della nostra legge sul divorzio, è utile fare un salto indietro nel tempo, precisamente alla sera dell’11 novembre 1563. Quella notte, il Concilio di Trento, in antitesi alla dottrina protestante che ammetteva lo scioglimento del matrimonio, approvò un documento, il celebre Tametsi, che scomunicava chiunque affermasse che il matrimonio potesse essere sciolto, ad esempio per l’adulterio di un coniuge.

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Quell’anatema ha segnato una profonda e duratura spaccatura tra il diritto di famiglia di matrice cattolica e quello di matrice protestante. In Italia, la cultura cattolica ha difeso l’indissolubilità del vincolo matrimoniale per ben 407 anni, fino a quando, nel 1970, fu finalmente promulgata la legge sul divorzio.

Anche quella legge, però, fu il frutto di un compromesso politico tra la cultura laica e quella cattolica. La Democrazia Cristiana, partito di governo all’epoca, accettò il via libera alla nuova legge a una condizione fondamentale: il divorzio non doveva essere basato sul semplice accordo tra i coniugi o sulla colpa di uno dei due, ma solo su fatti oggettivi accertati da un giudice. La principale tra queste ragioni oggettive era, e rimane ancora oggi, un periodo di separazione legale ininterrotta. Ecco perché, ancora oggi, il nostro sistema prevede questo “doppio passaggio”: prima la separazione, poi il divorzio.

Come si è passati dal “divorzio lungo” al cosiddetto “divorzio breve”?

Se la struttura “separazione prima, divorzio poi” è rimasta immutata, ciò che è cambiato radicalmente sono i

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tempi di attesa. Il legislatore è intervenuto più volte per ridurre il tempo che deve intercorrere tra la separazione e la possibilità di chiedere il divorzio.

La legge del 1970 prevedeva originariamente un periodo di separazione di cinque anni (che potevano diventare sette in alcuni casi).

Nel 1987, una prima importante riforma ha ridotto questo periodo a tre anni.

Nel 2015, con la legge sul cosiddetto “divorzio breve”, c’è stata l’accelerazione definitiva. Oggi, il tempo che deve intercorrere tra l’udienza di comparizione dei coniugi nel procedimento di separazione e la domanda di divorzio è stato ridotto a:

  • sei mesi, se la separazione è stata consensuale;
  • un anno, se la separazione è stata giudiziale.

È possibile divorziare senza andare in tribunale?

Un’altra tappa fondamentale di questa evoluzione è stata introdotta nel 2014 (con il decreto-legge n. 132). Oggi i coniugi possono separarsi prima e divorziare poi (una volta trascorso il periodo di separazione previsto dalla legge) con un semplice accordo, senza passare dal tribunale. Le modalità sono due:

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  1. negoziazione assistita: se la coppia ha figli minori, maggiorenni non autosufficienti o portatori di handicap, l’accordo deve essere necessariamente “negoziato” tramite l’assistenza di almeno un avvocato per parte. L’accordo raggiunto viene poi sottoposto al controllo del Pubblico Ministero;
  2. accordo diretto in Comune: se la coppia non ha figli minori o non autosufficienti, può presentare il proprio accordo di separazione o divorzio direttamente all’ufficiale di stato civile del Comune, senza bisogno di avvocati e senza sostenere spese legali.

Come ha influito la Riforma Cartabia sul divorzio?

La recente riforma del processo civile, nota come Riforma Cartabia, ha introdotto un’ulteriore semplificazione procedurale. Oggi è possibile che la domanda di separazione e la domanda di divorzio siano presentate con il medesimo ricorso depositato in tribunale. Infatti, se prima era necessario prima attendere la fine della procedura di separazione e, successivamente, presentare una seconda e autonoma domanda giudiziale, oggi – pur rimanendo i due procedimenti distinti e cronologicamente separati – è possibile avviare la procedura con un unico atto processuale.

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Questo non significa che si ottenga il divorzio immediatamente. Il giudice potrà pronunciare la sentenza di divorzio solo dopo che sarà trascorso il periodo di separazione previsto dalla legge (6 o 12 mesi, a seconda che la separazione sia stata, rispettivamente, consensuale o giudiziale). Tuttavia, come detto, questa novità permette di incardinare fin da subito entrambi i procedimenti, snellendo i tempi e riducendo i costi.

Inoltre, è stata consolidata la possibilità per i coniugi di chiedere una “sentenza parziale” che dichiari subito la separazione o il divorzio, permettendo loro di riottenere lo stato libero e di potersi risposare, mentre la causa prosegue per risolvere le questioni più complesse e lunghe, come quelle relative ai figli o agli aspetti economici.

Qual è l’aspetto più “arretrato” nella legge italiana sul divorzio?

Paradossalmente, mentre la procedura per arrivare al divorzio è diventata una delle più moderne e “no-fault” (senza colpa) in Europa, la disciplina delle conseguenze patrimoniali del divorzio è rimasta molto arretrata.

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Il punto debole del nostro sistema è che il giudice, di regola, può solo riconoscere al coniuge economicamente più debole un assegno periodico, che in molti casi si trasforma in una rendita tendenzialmente vitalizia.

Come è cambiato il criterio per calcolare l’assegno divorzile negli ultimi anni?

Su questo tema, la giurisprudenza della Cassazione ha vissuto una vera e propria rivoluzione in tre tappe.

L’era del “Tenore di Vita” (1990-2017)

Per quasi trent’anni, a partire da alcune sentenze a Sezioni Unite del 1990, il criterio principale per la determinazione dell’assegno era quello di garantire al coniuge più debole il mantenimento dello stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio. Questo creava un vincolo economico che, di fatto, sopravviveva allo scioglimento del matrimonio.

Il “fulmine a ciel sereno” del 2017

Con una sentenza che ha scosso il mondo del diritto di famiglia, la Cassazione ha improvvisamente cambiato rotta. Ha affermato che con il divorzio il legame matrimoniale si scioglie e, con esso, anche il diritto a mantenere il tenore di vita precedente. L’assegno, secondo questa sentenza, doveva avere una funzione puramente

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assistenziale, garantendo al coniuge più debole solo ciò che era necessario per un “dignitoso autonomo sostentamento”.

La correzione delle Sezioni Unite del 2018 (il criterio attuale)

Di fronte alle critiche e al dibattito suscitati dalla sentenza del 2017, le Sezioni Unite della Cassazione sono nuovamente intervenute nel 2018, trovando un nuovo e più equilibrato punto di sintesi. Hanno confermato che il diritto a conservare il tenore di vita matrimoniale si estingue con il divorzio. Tuttavia, hanno correttamente rilevato che l’assegno divorzile ha una funzione non solo assistenziale, ma anche (e soprattutto) perequativa e compensativa.

Ma cosa significa esattamente che l’assegno divorzile oggi ha una funzione “compensativa” Significa che l’assegno non serve solo a garantire un sostentamento al coniuge più debole, ma anche e soprattutto a dargli un’equa compensazione per i sacrifici fatti e le energie spese a favore della famiglia e dei figli durante il matrimonio. L’assegno divorzile, quindi, deve essere parametrato alla misura dei sacrifici che il coniuge più debole (solitamente la donna) ha fatto, ad esempio rinunciando a opportunità di carriera o lavorando di meno per dedicarsi alla cura della casa e dei figli, contribuendo così in modo indiretto alla formazione del patrimonio comune e al successo professionale dell’altro coniuge. È il riconoscimento del valore del lavoro familiare e delle scelte condivise durante la vita matrimoniale.

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È necessaria un’ulteriore riforma dell’assegno divorzile?

Secondo molti giuristi, la Cassazione ha fatto tutto il possibile per modernizzare l’interpretazione di una legge che, su questo punto, è rimasta sostanzialmente quella del 1970. Il problema è che lasciare tra due ex coniugi il “cordone ombelicale” costituito da un assegno periodico che può durare per tutta la vita non ha più senso nella società attuale e spesso alimenta la conflittualità.

Nella maggior parte degli altri ordinamenti occidentali, il giudice ha la possibilità di regolare i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi con una somma pagata in un’unica soluzione (la cosiddetta “liquidazione una tantum“). Questo pagamento unico rappresenterebbe la compensazione definitiva per i sacrifici fatti dal coniuge debole durante gli anni del matrimonio, permettendo a entrambi di ottenere una vera e propria indipendenza economica e un taglio netto con il passato.

Una riforma in questa direzione, secondo molti, è indispensabile e urgente per modernizzare anche l’aspetto patrimoniale del nostro diritto divorzile.

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