"Vai a casa" dopo una lite sul lavoro: per il giudice non è licenziamento 

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Un lavoratore crede di essere stato licenziato verbalmente dopo un litigio, ma l’azienda lo multa e poi lo licenzia per assenza. Per il Tribunale di Agrigento ha ragione l’azienda. Una sentenza che insegna i rischi fatali delle parole non scritte e delle incomprensioni sul posto di lavoro.

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Un diverbio acceso con un collega, il datore di lavoro che interviene e, perentorio, ordina: “Basta, vai a casa!“. Cosa significa, legalmente, un’espressione del genere? È un licenziamento in tronco, comunicato oralmente? O un semplice invito a sbollire la rabbia? Su questo equivoco, tanto comune quanto pericoloso, si è giocato il destino di un posto di lavoro in una recente causa decisa dal Tribunale di Agrigento. Con la sentenza n. 1060 del 3 luglio 2025, il giudice del lavoro ha stabilito che l’invito ad andare a casa non costituisce un licenziamento, e che il lavoratore che lo interpreta come tale e si assenta dal lavoro, rischia di essere legittimamente licenziato, questa volta per davvero, per assenza ingiustificata. La decisione è una lezione esemplare e amara su come, nel diritto del lavoro, la comunicazione formale e scritta prevalga sempre sulle ambiguità verbali, e come un’incomprensione possa costare il posto.

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L’equivoco fatale, l’interpretazione di un ordine che costa il posto

La vicenda nasce da una situazione purtroppo ordinaria: un’accesa discussione tra due dipendenti. Il datore di lavoro interviene per sedare gli animi e allontana uno dei due lavoratori con la frase “basta vai a casa”. Il dipendente, sentendosi cacciato, interpreta l’ordine come un licenziamento verbale e, di conseguenza, non si presenta più al lavoro nei giorni successivi. L’azienda, dal canto suo, interpreta il gesto in modo completamente diverso: non un recesso, ma un allontanamento temporaneo finalizzato a “calmare le acque” e a poter valutare con lucidità il da farsi sul piano disciplinare.

È qui che si genera l’equivoco fatale. Due interpretazioni diametralmente opposte dello stesso ordine verbale. Il lavoratore agisce sulla base della sua percezione soggettiva di essere stato licenziato. L’azienda, invece, prosegue come se il rapporto di lavoro fosse ancora in essere. Questa divergenza di interpretazioni dà il via a una catena di eventi che porterà, inevitabilmente, alla rottura definitiva del rapporto.

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La ‘cartina di tornasole’ legale, perché la multa ha cambiato tutto

Come ha fatto il giudice a decidere quale delle due interpretazioni fosse quella corretta? Ha utilizzato una “cartina di tornasole” giuridica, ovvero il primo atto formale e scritto compiuto dall’azienda dopo l’allontanamento verbale. Pochi giorni dopo l’episodio, infatti, l’impresa ha inviato al dipendente una nota disciplinare con cui lo sanzionava per il diverbio avuto con il collega. La sanzione scelta non era il licenziamento, ma una semplice multa.

Questo passaggio è stato decisivo. Come sottolinea il giudice, un datore di lavoro non può logicamente sanzionare con una multa (una sanzione “conservativa”) un dipendente che ha già licenziato. L’applicazione di una multa presuppone che il rapporto di lavoro sia ancora attivo (presuppone la vicenda del rapporto). Questo atto formale ha svelato in modo inequivocabile la reale intenzione del datore di lavoro: non quella di licenziare in tronco, ma quella di punire il comportamento specifico del diverbio con una sanzione blanda, mantenendo in vita il contratto.

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L’errore del lavoratore, non rientrare in servizio dopo la sanzione

A questo punto della vicenda, la responsabilità si sposta interamente sul lavoratore. Se la sua assenza iniziale poteva essere giustificata da un legittimo (seppur errato) convincimento di essere stato licenziato, la ricezione della comunicazione scritta contenente la multa ha cambiato radicalmente le carte in tavola. Quella lettera era la prova formale che egli era ancora a tutti gli effetti un dipendente dell’azienda.

Da quel momento, come sottolinea il Tribunale, il lavoratore era tenuto a ripresentarsi in servizio. La sua continua assenza, non più sorretta da alcun equivoco, si è trasformata in un nuovo e distinto illecito disciplinare: l’assenza ingiustificata. L’azienda ha quindi correttamente avviato una seconda procedura di contestazione, questa volta per l’assenza, e di fronte alla mancata e tardiva giustificazione del dipendente, ha proceduto con un licenziamento formale, scritto e, a questo punto, pienamente legittimo.

La vittoria del formalismo, in tribunale contano solo gli atti scritti

La sentenza di Agrigento è una potente affermazione del principio del formalismo nel diritto del lavoro. In un’aula di tribunale, le percezioni soggettive, le parole dette in un momento di rabbia e le interpretazioni personali hanno un peso quasi nullo di fronte alla fredda sequenza degli atti scritti.

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