Abbraccio non voluto in ufficio: è giusta causa di licenziamento?

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Un abbraccio non gradito da una collega è sempre molestia sessuale e giustifica il licenziamento? La Cassazione distingue tra comportamento inappropriato e violazione della dignità con conseguente violenza sessuale sul lavoro.
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L’ambiente di lavoro è un ecosistema complesso, un luogo dove le relazioni professionali si intrecciano con quelle personali. Un saluto, una battuta, un gesto di familiarità. Ma dove finisce la consuetudine e dove inizia l’inappropriato? E, soprattutto, quando un comportamento indesiderato si trasforma in una molestia sessuale così grave da giustificare la sanzione più dura, il licenziamento in tronco? Non poche volte, le avances dei superiori gerarchici o degli stessi colleghi di stanza sono state considerate un motivo di risoluzione del rapporto di lavoro. E questo perché l’articolo 2087 del codice civile impone al datore di tutelare la salute non solo fisica ma anche psichica dei propri dipendenti. Ebbene, quando un

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abbraccio non voluto in ufficio è giusta causa di licenziamento? La risposta, che arriva da una ordinanza della Corte di Cassazione (sent. n. 20420 del 21 luglio 2025), è un richiamo alla proporzionalità e a un’attenta analisi dei fatti. Non ogni comportamento inappropriato è una molestia sessuale, e non ogni errore, anche se meritevole di una sanzione, può costare il posto di lavoro.

Cosa dice la legge sulla “molestia sessuale” sul lavoro?

Per capire la decisione della Cassazione, è essenziale partire dalla definizione legale. Non è l’azienda o il singolo a decidere cosa sia una molestia, ma la legge. L’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 198/2006 (il Codice delle Pari Opportunità) definisce le molestie sessuali come:

«quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, che hanno lo scopo o l’effetto di

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violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

Come si vede, non basta che un comportamento sia “indesiderato” e a “connotazione sessuale”. Per essere una molestia, deve avere l’effetto di violare la dignità della persona e di inquinare l’ambiente di lavoro.

Un comportamento “inappropriato” è sempre una molestia?

Non sempre una avance o un comportamento inappropriato può essere considerato una molestia. Esiste una zona grigia tra un comportamento semplicemente inopportuno o scorretto e una vera e propria molestia. La Cassazione, con la sua recente ordinanza, ha voluto tracciare una linea di demarcazione. Un gesto, anche se non gradito e respinto dalla collega, non si trasforma automaticamente in una molestia se manca l’elemento fondamentale: la violazione della dignità.

Se il comportamento, pur essendo inappropriato, non è prevaricatorio, intimidatorio, offensivo o degradante, non può essere qualificato come molestia sessuale.

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Il caso deciso dalla Cassazione: un saluto troppo espansivo

L’ordinanza n. 20420/2025 nasce da un caso emblematico. Un lavoratore viene licenziato in tronco per “giusta causa”. L’accusa è quella di aver tenuto una condotta inappropriata nei confronti di una collega. Il gesto, forse un abbraccio nel salutarla, è stato chiaramente indesiderato, al punto che la donna si è subito rivolta al datore di lavoro e alla psicologa del centro d’ascolto aziendale. È stato avviato anche un procedimento penale, che però è stato poi archiviato.

I giudici di secondo grado avevano ritenuto legittimo il licenziamento. La Suprema Corte ha ribaltato la decisione e ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando l’azienda al risarcimento del danno.

Il ragionamento dei giudici supremi si è basato su un’analisi lucida e rigorosa, non delle intenzioni, ma dei fatti e, soprattutto, delle regole contrattuali. La Corte ha stabilito che il comportamento del lavoratore, per quanto inappropriato e non gradito,

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non aveva rivestito una connotazione sessuale tale da violare la dignità della collega. Non è emerso un intento prevaricatorio o umiliante. Anzi, da quel poco che era stato contestato in modo specifico, la condotta denotava un “semplice rapporto di consuetudine nel saluto fra le persone”, magari goffo e inopportuno, ma non una molestia.

Inoltre il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicato in quell’azienda prevedeva una scala di sanzioni. Il licenziamento era la sanzione massima, riservata alle infrazioni più gravi, come appunto i comportamenti che ledono la dignità della persona. Il comportamento del lavoratore, invece, rientrava in una fattispecie meno grave, quella del “contegno scorretto verso i colleghi”, punita dal CCNL con una semplice sanzione conservativa (come una multa o una sospensione), non con il licenziamento.

La Cassazione ha anche notato che la lettera di contestazione inviata dall’azienda era “poco specifica”, un vizio che ha ulteriormente indebolito la posizione del datore di lavoro.

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La Cassazione ha chiarito che il decreto di archiviazione del procedimento penale non poteva comunque essere utilizzato nel processo del lavoro, perché il datore di lavoro non si era costituito parte civile in quella sede. La decisione si è basata interamente sulla valutazione del comportamento sul piano del diritto del lavoro e del contratto collettivo.

Quali sono le conseguenze di un licenziamento dichiarato illegittimo in questo caso?

Poiché il fatto contestato, pur sussistendo, non era così grave da giustificare il licenziamento, ma avrebbe dovuto essere punito con una sanzione conservativa, la tutela per il lavoratore è stata quella massima. La Cassazione ha confermato la decisione di:

  • reintegrazione nel posto di lavoro, come previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori;
  • condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, commisurata alle retribuzioni perse dal giorno del licenziamento a quello della reintegra;
  • condanna al pagamento di un ulteriore risarcimento per il licenziamento “ingiurioso”.

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