Dazi, l'arma di Trump è potente ma a doppio taglio: analisi di una strategia che non funziona  

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La politica dei dazi di Trump ha portato le tariffe medie USA ai livelli degli anni ’30, ma i risultati economici sono deludenti e l’uso politico dello strumento mina l’affidabilità americana. Un’analisi approfondita di come la “clava” del protezionismo si stia rivelando un boomerang per gli Stati Uniti.

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È un balzo indietro di quasi un secolo. Con l’ultima raffica di annunci, i dazi medi reali imposti dagli Stati Uniti sono schizzati dal 2,2% al 18,3%, il livello più alto dal 1934, in piena Grande Depressione. A certificarlo è un’analisi dello Yale Budget Lab, che fotografa la portata storica della rivoluzione protezionista di Donald Trump. Dal punto di vista della propaganda interna, la mossa è un innegabile successo: il Presidente si presenta come un negoziatore implacabile, un leader che mantiene le promesse e detta l’agenda al mondo intero. Ma dietro la cortina di fumo della comunicazione politica, un’analisi più approfondita dei dati e delle strategie rivela un quadro molto diverso. La clava dei dazi si sta dimostrando un’arma potente ma a doppio taglio, uno strumento troppo rozzo e inefficace per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di politica industriale, e sempre più utilizzato come strumento di coercizione in politica estera, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’economia e la credibilità degli Stati Uniti stessi.

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Qual è il vero obiettivo di Trump e perché è quasi impossibile da raggiungere?

L’ambizione dichiarata di Trump è epocale: invertire una tendenza economica che dura da oltre mezzo secolo, ovvero rimpatriare l’attività industriale che le aziende americane hanno delocalizzato all’estero in cerca di minori costi di produzione. L’idea è che, tassando pesantemente le importazioni, le aziende saranno costrette a tornare a produrre sul suolo americano.

Tuttavia, come sottolinea l’analisi, questa ambizione resta confinata al mondo delle presentazioni in PowerPoint. Le catene globali del valore sono oggi talmente complesse e interconnesse che pensare di smantellarle con la sola leva dei dazi è un’illusione. È un’operazione di una difficoltà paragonabile, per usare le parole dell’autore, “a portare la democrazia in Afghanistan”. Richiederebbe decenni, costi enormi per le imprese e sconvolgimenti economici che nessuna amministrazione, per quanto aggressiva, può realisticamente gestire nel breve periodo. La politica dei dazi, quindi, non sta realmente cambiando la struttura profonda dell’economia globale, ma sta solo generando caos e incertezza nel breve termine.

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Quali sono stati i risultati economici reali del primo semestre?

Se l’obiettivo a lungo termine è irraggiungibile, i risultati a breve termine della politica di Trump sono, nella migliore delle ipotesi, “molto misti”. Dopo un primo trimestre del 2025 disastroso, in cui la brutalità delle mosse della Casa Bianca ha generato panico e segni negativi ovunque, il secondo trimestre ha visto un rimbalzo, sia nell’economia reale che in Borsa. Ma si è trattato, appunto, più di un rimbalzo tecnico che di una solida ripresa.

A suggerirlo sono soprattutto i dati sul mercato del lavoro, il fiore all’occhiello di ogni presidente americano. La disoccupazione è in crescita al 4,2% e, dato ancora più preoccupante, i numeri sui nuovi occupati dei mesi precedenti sono stati oggetto di una forte revisione al ribasso. Questo è un segnale molto negativo, specialmente se si considera che la dura lotta all’immigrazione, secondo la narrazione di Trump, avrebbe dovuto liberare posti di lavoro per i cittadini americani. I dati, per ora, dicono il contrario.

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L’accordo con l’Europa è davvero equo?

No, e i dettagli lo dimostrano. Il dazio del 15% imposto all’Unione Europea, pur essendo un unico numero, produce effetti molto diversi tra i vari Stati membri, rivelando anche una certa capacità di Bruxelles di proteggere i suoi membri più influenti.

La nuova tariffa mette sullo stesso piano Paesi che prima avevano dazi bassissimi, come l’Irlanda (0,20%) o la Francia (1,20%), con l’Italia (che partiva dal 2,20%).

L’accordo sembra quasi proteggere i Paesi UE a scapito di altri. La neutrale Svizzera, ad esempio, si vede imporre un dazio esorbitante del 39%.

L’esenzione ottenuta per gli aeroplani è un chiaro vantaggio per la Francia e la Germania, sedi del consorzio Airbus (un A330 Neo costa fino a 300 milioni di dollari), molto più che per l’Italia, il cui export aeronautico verso gli USA è di nicchia (un Tecnam P.2012, citato come esempio, costa circa 2,5 milioni).

L’impatto sui conti pubblici e sui consumatori americani è positivo?

Anche su questo fronte, la strategia di Trump mostra le sue crepe. Le due riflessioni principali sono:

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  1. l’impatto sui consumatori: una parte del costo dei dazi si trasferirà inevitabilmente sui prezzi finali dei prodotti importati. Saranno i consumatori americani, con il loro reddito disponibile, a pagare una parte del conto, con un effetto inflazionistico;
  2. il gettito fiscale deludente: le entrate generate dai dazi, per quanto significative, sono risultate inferiori alle previsioni iniziali. Questo significa che non saranno sufficienti a compensare il massiccio taglio delle imposte sul reddito, specialmente quelle a favore delle fasce più abbienti, che era uno dei pilastri della politica economica di Trump.

Come Trump sta usando i dazi come strumento di politica estera?

Questa è forse la trasformazione più pericolosa. I dazi non sono più solo uno strumento di politica economica, ma una vera e propria “clava” di politica estera, usata per premiare gli alleati e punire i governi ostili, a prescindere da qualsiasi logica commerciale.

Il caso del Brasile. Il Paese è stato colpito da pesanti sanzioni non per ragioni commerciali, ma come ritorsione per le vicende giudiziarie che coinvolgono l’ex presidente Bolsonaro, amico di Trump.

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Le minacce sul riconoscimento della Palestina. Trump ha minacciato ritorsioni contro i Paesi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, una decisione che, secondo l’analisi, è frutto dei suoi stessi fallimenti diplomatici nel risolvere la guerra a Gaza.

Questo passaggio dall’obiettivo economico a quello puramente politico è estremamente dannoso. Mette in discussione l’affidabilità degli Stati Uniti come partner, danneggia la fiducia degli investitori e crea un clima di instabilità globale, dove le regole del commercio possono essere stravolte da un giorno all’altro per un capriccio politico.

Conclusione, uno strumento troppo rozzo per un mondo complesso

In conclusione, l’analisi mostra come la politica dei dazi di Donald Trump sia uno strumento troppo “rozzo” e unidimensionale per affrontare la complessità del mondo moderno. Come un meccanico che pretendesse di riparare un’auto complessa usando solo un martello, Trump sta usando la clava delle tariffe per cercare di raggiungere simultaneamente obiettivi economici, industriali e di politica estera, con risultati mediocri o controproducenti su tutti i fronti. L’assenza di altri strumenti diplomatici è palese: dove la leva dei dazi non può essere usata, come con la Russia, la superpotenza americana si scopre incapace persino di portare le parti a un tavolo di negoziato. L’arma dei dazi, quindi, si rivela potente nel creare caos e nel proiettare un’immagine di forza, ma del tutto inefficace nel costruire soluzioni durature e nel governare un mondo complesso.

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