Dipendente PA: ok alla Partita IVA se coltivatore diretto non professionale

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Un dipendente pubblico può aprire una Partita IVA per attività agricola non professionale. Il Consiglio di Stato la giudica compatibile con il ruolo, anche se si guadagna con la vendita dei prodotti.

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Non è vietato a un dipendente della Pubblica Amministrazione aprire una Partita IVA, a condizione che questa sia strettamente funzionale all’esercizio non professionale di un’attività agricola. Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5854/2025, confermando un orientamento già espresso in passato dalla giurisprudenza amministrativa e contabile. La decisione apre la strada a una maggiore chiarezza per i dipendenti pubblici che possiedono un fondo rustico e intendono curarlo e trarne un minimo reddito, senza che questo sia considerato incompatibile con il loro lavoro statale.

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La vicenda: un dipendente multato per la Partita IVA per le olive

Il caso esaminato dal Consiglio di Stato riguardava un dipendente pubblico che aveva aperto una Partita IVA non per svolgere un’attività commerciale in senso stretto, ma per soddisfare un’esigenza personale: la raccolta delle olive su dei terreni di sua proprietà. L’uomo aveva poi proceduto al conferimento e alla molitura delle olive presso un frantoio locale, ricavandone dell’olio destinato esclusivamente al fabbisogno della sua famiglia.

Il datore di lavoro pubblico aveva ritenuto tale comportamento in contrasto con le disposizioni sull’esercizio di attività private extraprofessionali, sanzionando il dipendente con la privazione dello stipendio per alcune giornate.

Partita IVA per attività agricola: il dipendente pubblico non perde il posto

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Il contemperamento tra il principio di esclusività del lavoro e il diritto di proprietà

Il Consiglio di Stato, confermando la pronuncia del giudice di primo grado, ha precisato che questo tipo di attività non è incompatibile con il principio di esclusività del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.

La sentenza si basa su due norme fondamentali: l’articolo 60 del DPR 3/1957 e l’articolo 53 del TUPI (Testo Unico del Pubblico Impiego), che vietano espressamente ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici l’esercizio dell’industria e del commercio, ma non l’esercizio dell’attività agricola.

La ratio di questa esclusione risiede in un bilanciamento operato dal legislatore. Da un lato, c’è il principio di esclusività del rapporto di lavoro del dipendente pubblico, che deve dedicare le sue energie primariamente alla sua funzione. Dall’altro, ci sono le esigenze coessenziali alla titolarità di un fondo rustico. Il proprietario, infatti, ha il diritto e, in virtù delle normative europee sugli aiuti agli agricoltori, l’onere di prendersi cura del terreno (anche tramite terzi incaricati), osservando le ordinarie pratiche agronomiche e di trarne un reddito agrario, anche attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli.

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Un “vulnus” alla Costituzione: la difesa del diritto di proprietà

Il Consiglio di Stato ha quindi concluso che l’apertura di una Partita IVA non è vietata al dipendente pubblico, sempreché sia strettamente funzionale all’esercizio non professionale dell’attività agricola, per il corretto adempimento delle facoltà e degli oneri connessi alla proprietà di un fondo rustico. L’attività deve essere esercitata in modo “ancillare”, cioè di supporto, rispetto all’assetto dominicale.

Una lettura diversa, infatti, arrecherebbe un “vulnus” (una lesione) al nucleo essenziale delle prerogative dominicali e all’effettivo esercizio del diritto di proprietà, che trova diretta tutela all’interno della Costituzione italiana. La sentenza rappresenta, quindi, un’importante garanzia per tutti i dipendenti pubblici che, per ragioni familiari o patrimoniali, si ritrovano a gestire un terreno agricolo e a dover, per legge e per prassi, curarlo e valorizzarne il reddito, senza che questo si traduca in un’incompatibilità con il loro ruolo nella Pubblica Amministrazione.

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