Testimonianza della vittima: la guida completa per smontarla nel processo penale

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La parola della vittima può bastare per una condanna, ma come si contesta? Ecco la guida per analizzare credibilità e attendibilità del racconto.

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Nel teatro del processo penale, la testimonianza della vittima del reato è spesso l’elemento capace, da solo, di orientare la decisione del giudice verso una condanna. La giurisprudenza lo conferma senza esitazioni: le dichiarazioni della persona offesa possono, in linea di principio, fondare un verdetto di colpevolezza anche senza la necessità di ulteriori “riscontri esterni”. Tuttavia, questa potenza probatoria nasconde una fragilità intrinseca. Proprio perché la vittima non è un testimone disinteressato, ma una parte attiva con un potenziale interesse personale ed economico all’esito del giudizio, la sua testimonianza deve superare un esame rigoroso, quasi una prova del fuoco.

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Questo articolo non si limita a descrivere i principi giuridici, ma si propone come una vera e propria guida strategica per comprendere come la difesa può, e deve, analizzare e potenzialmente “smontare” pezzo per pezzo la narrazione della persona offesa. Vediamo come, attraverso una serie di domande e risposte che esplorano i due pilastri di questa valutazione: la credibilità soggettiva di chi parla e l’attendibilità intrinsecadi ciò che viene detto.

Perché la testimonianza della vittima viene esaminata con tanta diffidenza?

La vittima non è e non può essere considerata un testimone “terzo” e imparziale come un passante che assiste a un incidente. Essa è la protagonista di una vicenda che l’ha danneggiata ed è portatrice di un interesse diretto e concreto all’affermazione della responsabilità penale dell’

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imputato. Questo interesse diventa ancora più evidente e tangibile quando la persona offesa si costituisce parte civile nel processo, chiedendo un risarcimento economico per i danni subiti.

Come sottolineato da numerose sentenze della Cassazione (tra cui Cass. Pen., Sez. 2, N. 42064 del 08-11-2022 e N. 9955 del 22-03-2022), questa posizione processuale non invalida la testimonianza, ma impone al giudice un dovere di verifica ancora più penetrante e approfondito. Il rischio, altrimenti, è che il processo penale venga strumentalizzato per raggiungere obiettivi personali, come vendette private o vantaggi economici. Per questo, ogni dichiarazione viene passata al setaccio attraverso una doppia analisi.

Cosa si intende per “credibilità soggettiva” e perché è il primo fronte d’attacco?

La credibilità soggettiva è il primo, fondamentale campo di battaglia. L’analisi non si concentra sul racconto, ma sulla persona che lo fa. Il giudice, e prima di lui l’avvocato difensore, deve chiedersi: “Chi è la persona che sta accusando? È, in generale, affidabile? Ha dei motivi personali per mentire o per alterare la realtà?”.

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Si tratta di una valutazione a 360 gradi sulla figura del dichiarante, che prende in esame:

  • la personalità e le condizioni psicofisiche: si analizzano il carattere, il vissuto e lo stato generale della vittima;
  • i rapporti pregressi con l’imputato: questo è un aspetto determinante. C’era un legame di amicizia, di affari, di parentela o, al contrario, di inimicizia? La presenza di un conflitto precedente alla denuncia (una lite per confini, una causa di lavoro, una rivalità sentimentale) è un potente segnale di allarme che deve indurre la massima cautela;
  • l’interesse nel processo: come già accennato, la costituzione di parte civile e la richiesta di un risarcimento sono elementi che, pur legittimi, rendono “opportuno” un controllo più severo e la ricerca di conferme esterne.
  • La presenza di moventi non leciti: il giudice deve scavare per capire se dietro l’accusa si nasconda un genuino bisogno di giustizia oppure sentimenti di rancore, astio, vendetta o altri scopi non commendevoli.

Esempio pratico

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: la testimonianza di una persona che subisce uno scippo da uno sconosciuto parte da una posizione di alta credibilità soggettiva. Al contrario, l’accusa di stalking mossa da un ex partner al culmine di un divorzio altamente conflittuale, con in ballo l’affidamento dei figli e questioni economiche, parte con un carico di sospetto che richiede un’analisi estremamente più approfondita.

Come può la difesa minare la credibilità soggettiva della vittima?

Per erodere la fiducia nella persona del dichiarante, la strategia difensiva può articolarsi su tre direttrici principali:

  1. dimostrare un movente alternativo: è il colpo più efficace. Produrre prove concrete (documenti, email, messaggi, testimonianze di altre persone) che dimostrino l’esistenza di un forte astio o di un conflitto di interessi tra la vittima e l’imputato, sorto prima della denuncia. L’obiettivo è instillare nel giudice il dubbio che l’accusa penale sia solo l’ultimo capitolo di una guerra personale;
  2. sottolineare l’interesse economico: martellare sul fatto che la vittima, costituita parte civile, ha un interesse diretto e quantificabile nella condanna. Questo può suggerire che abbia ingigantito i fatti o addirittura accusato falsamente per ottenere un vantaggio patrimoniale;
  3. introdurre elementi sulla personalità del dichiarante: se ammissibile e rilevante per il caso, portare a galla eventuali precedenti specifici della persona offesa per reati come la calunnia, la falsa testimonianza o la frode, che possono gettare un’ombra sulla sua generale affidabilità.

Cos’è invece l'”attendibilità intrinseca” e come si valuta?

Superato (o meno) lo scoglio della persona, l’analisi si sposta sul contenuto della sua dichiarazione. L’

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attendibilità intrinseca (o oggettiva) riguarda la qualità del racconto. La domanda che si pone il giudice è: “La storia che mi è stata raccontata sta in piedi da sola? È logica, coerente e plausibile?”.

Gli elementi chiave per questa valutazione sono:

  • precisione e ricchezza di dettagli: un racconto generico e vago è intrinsecamente debole. Al contrario, una narrazione analitica, circostanziata e piena di particolari (l’ora esatta, l’abbigliamento, le parole pronunciate, la sequenza dei gesti) è considerata più solida e attendibile (Cass. Pen., Sez. 2, N. 42064 del 08-11-2022);
  • coerenza logica interna: la storia non deve avere “buchi” narrativi o presentare contraddizioni. Gli eventi devono susseguirsi in modo plausibile e logico;
  • costanza e uniformità nel tempo: la versione dei fatti è rimasta la stessa nel corso del tempo? Si confrontano le dichiarazioni rese nella denuncia iniziale, quelle fornite alla polizia durante le indagini e, infine, la testimonianza resa in aula. Divergenze significative su punti importanti possono demolire l’intero impianto accusatorio;
  • spontaneità: un racconto che appare genuino e non artefatto o “imparato a memoria” acquista un peso maggiore.

Ad esempio, una presunta

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vittima di truffa che in denuncia parla di una somma, durante le indagini ne indica un’altra e in aula una terza, fornisce un racconto privo di attendibilità intrinseca. Le sue continue “discrasie” ne minano la credibilità.

Quali sono gli strumenti tecnici per far crollare l’attendibilità di un racconto?

La difesa ha a disposizione armi procedurali specifiche per far emergere le crepe in una narrazione:

  1. le contestazioni dibattimentali (art. 500 c.p.p.): è lo strumento più potente. L’avvocato, durante il controesame, può utilizzare le dichiarazioni scritte che la vittima ha reso in precedenza (e contenute nel fascicolo del PM) per contestare parola per parola ogni minima differenza o contraddizione rispetto a quanto sta affermando in aula. Questo serve a dimostrare al giudice che la versione non è costante e, quindi, inattendibile;
  2. l’evidenziazione delle incongruenze logiche: attraverso un controesame serrato, la difesa può mettere la vittima di fronte alle illogicità del suo racconto, facendo emergere passaggi a vuoto, elementi implausibili o ricostruzioni fattuali che sfidano la logica comune;
  3. il confronto con dati oggettivi: questo è il punto di connessione con i riscontri esterni. Se la vittima narra di un’aggressione avvenuta in un luogo affollato, ma nessun altro testimone ha visto nulla; o se descrive lesioni gravi che non trovano corrispondenza nel certificato medico, il suo racconto, per quanto dettagliato, perde ogni valore perché smentito dalla realtà oggettiva.

Alla fine, a chi spetta la decisione finale?

La valutazione sulla testimonianza della

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persona offesa è un “giudizio di fatto” che spetta unicamente al giudice di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Non si tratta di una semplice somma algebrica di elementi a favore o contro, ma di una valutazione unitaria e complessiva. Una piccola contraddizione può essere giudicata irrilevante se inserita in un quadro generale solido e coerente, sostenuto da una persona soggettivamente credibile. Al contrario, un racconto apparentemente perfetto può essere scartato se emerge un palese intento calunnioso da parte del dichiarante.

La decisione del giudice, se ben motivata, è difficilmente attaccabile in Cassazione. La Suprema Corte può intervenire solo se la motivazione è manifestamente illogica, contraddittoria o del tutto assente, ma non può riesaminare i fatti per fornire una “lettura” alternativa. Questo rende la battaglia per la credibilità e l’attendibilità della vittima il vero cuore pulsante del processo di primo grado.

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