La Cina minaccia il mondo: "Scegliete tra pace e guerra". L'ira di Trump e l'ombra di un conflitto globale

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Pechino sfida il mondo con una parata colossale. Xi, con Putin e Kim, lancia un ultimatum: “Pace o guerra?”. La reazione furiosa di Trump.
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Pechino ha messo in scena uno spettacolo di potenza militare e determinazione politica che va ben oltre una semplice celebrazione. In una Piazza Tienanmen blindata, sotto il ritratto gigantesco di Mao Zedong, il presidente Xi Jinping, affiancato dagli alleati Vladimir Putin e Kim Jong-un, non ha solo commemorato l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale; ha presentato al mondo una visione, un avvertimento e una scelta ineludibile. La parata, un’operazione militare da 5 miliardi di dollari, è stata il palcoscenico per un messaggio diretto principalmente a Washington: la Cina si considera la nuova “Terra di Mezzo”, il centro degli equilibri globali, e il suo “grande rinnovamento” è una forza che, a suo dire, “nessuno fermerà”. La reazione furiosa di un Donald Trump, che sognava la pace e ora vede lo spettro di una terza guerra mondiale, testimonia la profondità della frattura che si è aperta.

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Il discorso del leader: l’ultimatum di Xi Jinping al mondo

Vestito con la tradizionale giacca alla Mao, simbolo di continuità rivoluzionaria, Xi Jinping ha orchestrato una rappresentazione di grande teatralità geopolitica. Il suo monologo, pronunciato di fronte alle truppe schierate e al mondo intero, è stato costruito attorno a una domanda retorica tanto semplice quanto inquietante: «Pace o guerra? Dialogo o scontro? Cooperazione che premia tutte le parti o rivalità a somma zero?». Con queste parole, Xi ha dichiarato che “l’umanità è di nuovo di fronte a scelte cruciali”, posizionando la Cina non come un aggressore, ma come l’arbitro di un destino globale che l’Occidente, a suo dire, sta portando verso la catastrofe.

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Il discorso è stato il culmine di una campagna diplomatica volta a offrire al cosiddetto “Sud del mondo” un’alternativa al sistema di governance occidentale, definito “egemonico”. Sfruttando abilmente le tensioni create dalla politica aggressiva di Donald Trump, che ha usato i dazi come un randello contro avversari e alleati, Xi si propone come garante di un nuovo ordine “più equo e stabile”. Ma dietro la retorica della pace si cela un messaggio di ferro. Rivolgendosi direttamente all’Esercito Popolare di Liberazione, ha ribadito la sua missione: accelerare la trasformazione in «una forza di classe mondiale capace di salvaguardare risolutamente la sovranità nazionale, l’unità e l’integrità territoriale». Un riferimento nemmeno troppo velato all’obiettivo strategico di lungo termine: prendere il controllo di Taiwan e neutralizzare la capacità di intervento americano nel Pacifico occidentale. La conclusione è stata un proclama senza appello: «Il grande rinnovamento della Cina è inarrestabile»

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, lasciando al resto del mondo l’obbligo di adeguarsi per “vivere in armonia”.

La parata della superpotenza: un arsenale da 5 miliardi di dollari

Subito dopo le parole, è arrivata la dimostrazione di forza. A bordo di una limousine scoperta “Bandiera Rossa”, il comandante in capo Xi Jinping ha passato in rassegna le truppe, in un rituale studiato nei minimi dettagli. Gli altoparlanti diffondevano le sue grida: «Soldati, avete fatto un buon lavoro!», a cui faceva eco la risposta tonante dei ranghi: «Comandante, serviamo il popolo!».

La parata è stata un’operazione pianificata con precisione militare per impressionare. Secondo le stime dei servizi di intelligence taiwanesi, l’evento è costato la cifra esorbitante di 5 miliardi di dollari, pari al 2% dell’intero budget annuale della difesa cinese. Un costo che include il carburante, l’alloggio di migliaia di soldati per giorni di prove e persino la chiusura delle fabbriche più inquinanti per garantire un cielo terso sopra Pechino.

La simbologia era ovunque: 80 colpi di cannone a salve, 80 trombettieri, una banda musicale di 1000 elementi schierata in 14 file per ricordare gli anni della resistenza contro l’invasione giapponese (1931-1945), un periodo tre volte più lungo, sottolinea la propaganda cinese, di quello combattuto dagli americani. Ma il vero protagonista è stato l’arsenale. Sull’asfalto del viale Chang’an (Lunga Pace) hanno sfilato 10.000 soldati, centinaia di veicoli e, soprattutto, missili di ogni tipo: tattici, balistici, anti-nave e, per la prima volta, il temibile

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DF-41, il missile ipersonico intercontinentale a capacità nucleare. Insieme ad esso, i missili JL-2 lanciati dai sottomarini e i bombardieri H-6NA anti-portaerei, oltre a una flotta di droni volanti e sottomarini trasportati su camion. Un chiaro segnale che i vecchi armamenti di fabbricazione sovietica sono stati definitivamente archiviati in favore di una tecnologia bellica avanzatissima e interamente “Made in China”. Come ha notato un analista, in queste occasioni, ciò che spaventa di più è probabilmente ciò che non viene mostrato.

Il palco degli sfidanti: l’asse Pechino-Mosca-Pyongyang

La composizione della tribuna d’onore ha raccontato una storia altrettanto potente. L’assenza totale dei leader occidentali (con l’unica, significativa eccezione del premier slovacco “insubordinato” Robert Fico) ha evidenziato il fossato di diffidenza che separa Pechino dal blocco USA-UE. Al loro posto, un cast di leader che l’Occidente considera una minaccia alla stabilità globale.

L’immancabile “amico del cuore”

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Vladimir Putin ha recitato il suo ruolo di spalla di Xi, consolidando una partnership in cui la Russia accetta un ruolo di socio di minoranza in cambio di sostegno vitale, come dimostra l’accordo per il gasdotto “Power of Siberia 2”. Ma la vera novità è stata la presenza, per la prima volta in un consesso così importante, del leader nordcoreano Kim Jong-un. L’immagine del terzetto Xi-Putin-Kim che marcia spalla a spalla davanti alla Città Proibita è la plastica rappresentazione di un nuovo blocco coeso. Solo pochi anni fa, nel 2017, Cina e Russia approvavano dure sanzioni contro Pyongyang. Oggi, il “nuovo disordine mondiale” ha cambiato le carte in tavola. Mosca e Pyongyang hanno siglato un patto di mutuo soccorso bellico, e Xi, forse infastidito ma pragmaticamente, ha dato il suo tacito benestare, invitando Kim sul palco d’onore.

A completare il quadro, altri leader invisi all’Occidente: il bielorusso Aleksandr Lukashenko, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian e il generale Min Aung Hlaing

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, capo della giunta golpista del Myanmar. Un gruppo di uomini che, come ha ricordato un commentatore, conosce a memoria il celebre pensiero di Mao Zedong: «Il potere politico nasce dalla canna del fucile».

La furia di Washington: la reazione scomposta di Donald Trump

Dall’altra parte del mondo, la reazione di Donald Trump è stata un misto di rabbia, frustrazione e incredulità. Il presidente, che aveva basato parte della sua politica estera sulla sua presunta capacità di negoziare accordi personali con leader come Xi, si trova ora di fronte al fallimento di quella strategia. La sua ira si è riversata sui social media con un messaggio diretto al leader cinese: «Per favore, saluta calorosamente Vladimir Putin e Kim Jong Un mentre trami contro gli Stati Uniti».

Trump ha espresso tutta la sua frustrazione, accusando Pechino di ingratitudine e ricordando “l’enorme sostegno” fornito dagli USA durante la Seconda Guerra Mondiale. «Molti americani sono morti nella ricerca da parte della Cina di vittoria e gloria», ha lamentato. La parata di Pechino lo ha messo con le spalle al muro, costringendolo a ventilare nuove sanzioni contro la Russia e l’invio di più truppe in Polonia, in una spirale di escalation che sembra contraddire la sua promessa di pace. Il Cremlino ha risposto con gelida ironia, sperando che le accuse di “cospirazione” fossero “un commento figurato, non letterale”.

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Per Trump, la sfida è profonda. La sua politica aggressiva di “America First”, invece di isolare i suoi avversari, sembra averli compattati in una muraglia invalicabile, vanificando ogni tentativo di “divide et impera”. La sua affermazione che «la Cina ha bisogno di noi molto più di quanto noi abbiamo bisogno di loro» suona oggi più come una speranza che come un dato di fatto.

Conclusione: sull’orlo di una nuova era

La scenografica parata di Pechino non è stata solo una celebrazione del passato, ma la potente dichiarazione di intenti per il futuro. Ha segnato l’affermazione della centralità della Cina di Xi Jinping, un leader che, forte di un potere interno consolidato, si erge a faro di un nuovo ordine mondiale. Sotto gli occhi del mondo, ha dimostrato che il costante aumento del budget della difesa cinese (+7,5% nel 2025) si è tradotto in una macchina da guerra moderna, letale e autonoma. In questo contesto planetario turbolento, mentre il mondo osserva con ansia le tensioni nello Stretto di Taiwan, l’antico motto del generale romano Vegezio, «si vis pacem, para bellum» (se vuoi la pace, prepara la guerra), non è mai sembrato così attuale. Pechino ha mostrato di averlo imparato a memoria.

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