Autovelox non omologato: la multa è valida?
La Cassazione ritiene necessaria l’omologazione dell’autovelox, ma IL Tribunale di Bologna ha validato una multa da un apparecchio solo approvato. Così l’esito dei ricorsi degli automobilisti contravvenzionati resta incerto.
Dall’aprile del 2024, una dirompente sentenza della Corte di Cassazione ha scosso il mondo delle sanzioni per eccesso di velocità, accendendo le speranze di migliaia di automobilisti. Il principio, ormai consolidato, secondo cui un autovelox per essere legittimo deve essere non solo “approvato” ma anche “omologato”, sembrava aver tracciato una linea chiara, rendendo i ricorsi quasi una formalità. Tuttavia, una recente e rara sentenza del Tribunale di Bologna ha remato in direzione opposta, dando ragione alla Polizia e riaprendo di fatto la partita. Questa decisione inattesa riapre un dibattito che sembrava chiuso e ripropone con forza la domanda:
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Che differenza c’è tra autovelox “omologato” e “approvato”?
Il cuore del dibattito giuridico risiede nella distinzione tra due procedure amministrative: l’omologazione e l’approvazione. Sebbene possano sembrare sinonimi, rappresentano iter con finalità e complessità diverse. L’omologazione è un procedimento rigoroso con cui il Ministero competente certifica la conformità di un prototipo a precise norme tecniche, garantendone l’affidabilità. L’
La tesi rigorosa della Cassazione
L’orientamento che ha dato il via a un’ondata di ricorsi in tutta Italia è quello della Corte di Cassazione, inaugurato con la celebre ordinanza 10505 del 18 aprile 2024. Con questa pronuncia, la Suprema Corte ha stabilito una distinzione netta tra il procedimento di “approvazione” e quello di “omologazione” di un dispositivo di rilevamento della velocità. Secondo i giudici di legittimità, l’omologazione è una procedura più rigorosa e complessa, che certifica la conformità del dispositivo a determinate caratteristiche e ne garantisce l’infallibilità; l’approvazione, invece, sarebbe un atto più semplice, che non offre le medesime garanzie.
Di conseguenza, per la Cassazione, una multa basata sulla rilevazione di un autovelox semplicemente approvato, ma privo del certificato di
La Corte di Cassazione ha stabilito che l’articolo 142 del Codice della Strada richiede esplicitamente che le apparecchiature siano “debitamente omologate”. Di conseguenza, una multa elevata con un dispositivo che ha solo un certificato di approvazione sarebbe illegittima, perché manca il presupposto di legge che ne garantisce l’affidabilità come fonte di prova.
La tesi dell’equivalenza e i nuovi segnali
Un orientamento opposto, sostenuto in passato da circolari ministeriali (che tuttavia non sono fonti del diritto) e da parte della giurisprudenza, ritiene le due procedure funzionalmente equivalenti. A sostegno di questa tesi è intervenuto un recente segnale legislativo: la Legge n. 177 del 25 novembre 2024, pur riguardando la navigazione, per il rilevamento della velocità nelle vie d’acqua menziona apparecchiature “approvate
Cos’è la taratura e perché è così importante?
Se il dibattito su omologazione e approvazione è ancora aperto, esiste un punto su cui non vi è più alcun dubbio: l’obbligo della taratura periodica. Con la storica sentenza n. 113 del 2015, la Corte Costituzionaleha dichiarato che qualsiasi dispositivo di misurazione della velocità, per essere considerato affidabile, deve essere sottoposto a verifiche periodiche di funzionalità e calibrazione.
Il ragionamento della Corte è semplice e ineccepibile: l’affidabilità di uno strumento elettronico diminuisce nel tempo a causa dell’usura, degli agenti atmosferici e di altri fattori. L’omologazione iniziale certifica la bontà del prototipo, ma non può garantire che quello specifico apparecchio, installato da anni su una strada, stia ancora misurando la velocità in modo corretto. La
Chi deve dimostrare che l’autovelox è in regola?
Un principio fondamentale a tutela del cittadino è quello relativo all’onere della prova. Non spetta all’automobilista dimostrare che l’autovelox era difettoso o non in regola; al contrario, è la Pubblica Amministrazione che ha emesso il verbale a dover provare, in caso di ricorso, la piena conformità dello strumento.
Questo significa che, in sede di giudizio, l’ente (Comune, Polizia Stradale, ecc.) deve essere in grado di produrre tutta la documentazione necessaria a validare l’accertamento:
- il decreto di omologazione (o approvazione, con le incertezze del caso);
- il certificato di taratura periodica, valido al momento in cui è stata rilevata l’infrazione.
La mancanza di quest’ultimo documento, in particolare, è quasi sempre una causa diretta di annullamento del verbale da parte del giudice. Pertanto, il cittadino che intende fare ricorso ha elevate probabilità di successo se l’amministrazione non è in grado di dimostrare, con certificati alla mano, la perfetta regolarità e funzionalità dell’apparecchio utilizzato.
Perché il Tribunale di Bologna ha deciso in modo diverso?
Nonostante l’autorevolezza della Cassazione, i giudici di merito (ovvero dei tribunali e delle corti d’appello) mantengono la libertà di formarsi un proprio convincimento. È quanto accaduto a Bologna, dove la giudice Alessandra Cardarelli ha rigettato l’appello di un automobilista multato per aver percorso a 67 km/h un tratto con limite di 50. L’automobilista basava il suo ricorso proprio sulla mancanza di omologazione del dispositivo.
La giudice, pur riconoscendo l’esistenza di due orientamenti, ha scelto di discostarsi dalla Cassazione, ritenendo i termini “approvazione” e “omologazione” come “equipollenti”, ovvero equivalenti. Il suo ragionamento si basa su due argomenti principali:
- interpretazione del Codice della Strada: secondo la sentenza, l’articolo 142 (sui limiti di velocità) va letto insieme all’articolo 201, che per l’accertamento delle infrazioni prevede espressamente l’uso di apparecchiature “omologate ovvero approvate”. L’uso della congiunzione “ovvero” indicherebbe la volontà del legislatore di attribuire la stessa efficacia a entrambi i procedimenti.
- onere della prova a carico del conducente: la giudice ha aggiunto un ulteriore punto. Anche ammettendo la distinzione tra i due procedimenti, l’automobilista non si può limitare a contestare l’aspetto formale. Nel caso specifico, infatti, il ricorrente non aveva mai messo in dubbio la corretta funzionalità dello strumento, né contestato di aver effettivamente superato il limite di velocità. Per ottenere l’annullamento, avrebbe dovuto fornire prove sul malfunzionamento dell’apparecchio.
Cosa significa questa sentenza per chi vuole fare ricorso?
L’insegnamento più importante che si può trarre dal caso bolognese è che
Questo significa che un ricorso potrebbe essere respinto in primo o in secondo grado, costringendo l’automobilista a sobbarcarsi le spese e l’impegno di un ulteriore ricorso fino in Cassazione per far valere le proprie ragioni. Inoltre, non bisogna mai sottovalutare le tecnicalità del diritto: il modo in cui il ricorso viene impostato da un esperto può fare la differenza, così come i dettagli specifici di ogni singolo caso. Sebbene al momento l’orientamento della Suprema Corte rimanga quello prevalente e più probabile da veder applicato, la sentenza di Bologna funge da monito: nessuna vittoria in tribunale può mai essere data per scontata.