Quando l'infermiere può svolgere mansioni da OSS?

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L’assegnazione di compiti inferiori, come quelli dell’operatore socio-sanitario, è lecita solo se marginale, temporanea e dettata da reali esigenze di servizio. Ecco cosa dice la giurisprudenza.

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Le corsie degli ospedali e le strutture sanitarie sono spesso teatri di una flessibilità operativa dettata da necessità impellenti e, purtroppo, da carenze di organico ormai croniche. In questo scenario, i confini tra le diverse figure professionali possono diventare labili, portando a sovrapposizioni di compiti che sollevano interrogativi complessi sulla tutela dei lavoratori. La domanda che emerge con forza da questa realtà quotidiana, e che la magistratura si è trovata ad affrontare a più riprese, è proprio questa: quando l’infermiere può svolgere mansioni da OSS? La risposta non è un semplice “sì” o “no”, ma un delicato equilibrio di principi, criteri e condizioni che i giudici hanno distillato nel tempo, creando un solido orientamento che bilancia le esigenze organizzative del datore di lavoro con il diritto del professionista sanitario a vedere rispettata la propria qualifica. Un orientamento che, anche a fronte di recenti sentenze che hanno generato dibattito (Cass. nn. 7683/2025, 12128/2025 e 23431/2025), rimane sostanzialmente invariato e saldo nei suoi pilastri fondamentali.

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Qual è il quadro normativo di riferimento?

Per comprendere appieno la questione dell’assegnazione di mansioni inferiori all’infermiere, è necessario partire dal contesto normativo in cui si inserisce, ovvero quello dell’impiego pubblico privatizzato. La norma cardine è l’articolo 52 del Decreto Legislativo 165/2001 (Testo Unico sul Pubblico Impiego), il quale stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni considerate equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento. Questo principio di equivalenza delle mansioni, tuttavia, non offre una risposta chiara riguardo alla possibilità di adibire un lavoratore a compiti qualitativamente inferiori, appartenenti a un profilo diverso e più basso, come quello dell’Operatore Socio-Sanitario (OSS) rispetto all’infermiere.

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È proprio in questo vuoto normativo che si è inserita, con un ruolo supplente, la giurisprudenza. I giudici, sia di merito che di legittimità, hanno colmato la lacuna fissando una serie di paletti e criteri per giudicare la legittimità di una simile pratica, attingendo anche ai principi consolidati nel diritto del lavoro privato (art. 2103 c.c.) e adattandoli alle specificità del settore pubblico. L’obiettivo è sempre stato quello di contemperare il dovere di leale collaborazione del dipendente con l’interesse pubblico, senza però svuotare di significato la sua professionalità.

A quali condizioni l’infermiere può svolgere compiti da OSS?

L’orientamento consolidato della magistratura ammette che un infermiere possa essere chiamato a svolgere mansioni tipiche dell’OSS, ma solo a condizioni molto precise, che devono coesistere. La violazione anche solo di una di esse può configurare un demansionamento illecito. La richiesta di svolgere compiti inferiori deve, innanzitutto, essere motivata da esigenze di servizio

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oggettive, come particolari necessità organizzative, di efficienza o di sicurezza. Non è sufficiente, ad esempio, addurre generici vincoli di spesa o il blocco delle assunzioni per giustificare un utilizzo sistematico degli infermieri in ruoli diversi.

Un altro criterio fondamentale è quello della prevalenza. Le mansioni proprie della qualifica infermieristica devono rimanere, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, l’attività principale e assorbente del lavoratore (Cass. n. 4301/2013). Lo svolgimento di compiti inferiori deve quindi avere carattere di marginalitào incidentalità (Cass. n. 22901/2022; Cass. n. 8910/2019), essere meramente occasionale e non sistematico. Non deve trattarsi, inoltre, di un’assegnazione definitiva, ma conservare un carattere di temporaneità legato alla contingenza che l’ha generata (Cass. n. 19419/2020). Infine, un ulteriore paletto è che tali mansioni, sebbene inferiori, non siano completamente estranee alla professionalità dell’infermiere, rientrando in un più ampio contesto di assistenza al paziente (Cass. n. 12128/2025).

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Come si valuta il demansionamento nella pratica?

La valutazione circa la sussistenza di un demansionamento non può basarsi su un singolo episodio o su una frazione limitata dell’orario di lavoro, ma richiede un’analisi complessiva e fattuale dell’attività svolta dal professionista. Un esempio illuminante proviene da una recente pronuncia della Cassazione (Cass. n. 7683/2025), con la quale i giudici hanno annullato una sentenza di secondo grado proprio perché la Corte d’Appello aveva commesso l’errore di valutare solo il turno di notte dell’infermiere. Durante le ore notturne, la carenza di personale e specifiche esigenze organizzative potevano anche giustificare lo svolgimento di mansioni inferiori.

Tuttavia, per accertare se vi fosse una reale prevalenza di tali compiti, sarebbe stato necessario analizzare l’intero spettro dei turni e delle attività assegnate al lavoratore. Questo approccio olistico è essenziale: un conto è un infermiere che, durante un’emergenza notturna, aiuta un OSS in difficoltà occupandosi dell’igiene di un paziente; un altro è un infermiere a cui viene sistematicamente assegnato, come parte della sua routine quotidiana, un giro di letti per il cambio della biancheria o la distribuzione dei pasti, compiti che sono pacificamente riconducibili al mansionario dell’OSS. L’indagine deve quindi verificare, nel concreto, se l’attività infermieristica sia stata svuotata del suo nucleo qualificante a favore di compiti esecutivi e di livello inferiore.

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Le recenti sentenze hanno cambiato le regole del gioco?

Il 2025 ha visto la pubblicazione di diverse sentenze della Corte di Cassazione sul tema, generando in alcuni casi interpretazioni allarmistiche riguardo a un presunto indebolimento delle tutele per gli infermieri. Un’analisi attenta delle pronunce dimostra, al contrario, una piena continuità con l’orientamento consolidato. La sentenza n. 12128/2025, ad esempio, non solo ha confermato la condanna di un’azienda sanitaria per demansionamento, ma ha anche enunciato in modo cristallino il principio di diritto, ribadendo che l’adibizione a mansioni inferiori è legittima solo se non è sistematica e rispetta i criteri di marginalità ed eccezionalità.

Ancora più discussa è stata la sentenza n. 23431/2025, che ha indotto alcuni a temere un’inversione di rotta. In realtà, in quel caso la Suprema Corte non è entrata nel merito della questione, ma ha dichiarato il ricorso del lavoratore inammissibile per motivi puramente procedurali, legati a vizi nella sua formulazione. La sentenza non ha dunque modificato alcun principio, ma si è limitata a una valutazione tecnica sulla correttezza dell’atto processuale. Anzi, nel suo testo si dà atto che la decisione della corte territoriale (che era stata favorevole al datore di lavoro) era in linea con la giurisprudenza tradizionale, avendo accertato nei fatti la mancata

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prevalenza delle mansioni inferiori, svolte in modo complementare a quelle infermieristiche. Le regole, dunque, non sono cambiate: la professionalità dell’infermiere continua a essere tutelata.

Cosa rischia il datore di lavoro in caso di demansionamento?

Quando un datore di lavoro assegna a un infermiere mansioni da OSS in modo sistematico, prevalente e al di fuori delle strette condizioni fissate dalla giurisprudenza, commette un illecito contrattuale. Tale condotta, nota come demansionamento, lede il diritto del lavoratore alla tutela della propria professionalità, un bene giuridicamente protetto dall’ordinamento (art. 2103 c.c.). La conseguenza diretta per il datore di lavoro è l’obbligo di corrispondere al dipendente un risarcimento del danno.

Questo risarcimento può avere una duplice natura. Da un lato, vi è il danno professionale, legato all’impoverimento del bagaglio di competenze, alla perdita di chance di carriera e alla dequalificazione subita. Dall’altro, può essere riconosciuto anche un danno non patrimoniale, che include il danno biologico (qualora la dequalificazione abbia causato problemi di salute, come stress o depressione) e il danno esistenziale, connesso alla lesione della dignità personale e dell’immagine professionale del lavoratore. La giurisprudenza ha più volte confermato tali condanne (come nel caso deciso dalla Corte d’Appello de L’Aquila, n. 738/2020, e poi ratificato da Cass. n. 12128/2025), a riprova del fatto che la flessibilità organizzativa non può mai tradursi in un annullamento delle qualifiche e dei diritti dei lavoratori.

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