Conto cointestato, il bonifico personale diventa reato

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Anche se la banca non può opporsi all’operazione, trasferire fondi dal conto comune a quello privato senza consenso configura l’appropriazione indebita.

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Un’operazione all’apparenza banale, eseguita in pochi click, può trasformarsi in un reato. Trasferire una somma di denaro da un conto corrente cointestato a un proprio conto personale, senza il consenso dell’altro titolare, integra il reato di appropriazione indebita. La banca, dal canto suo, non può opporsi né bloccare il bonifico, in quanto è tenuta per contratto a eseguire le disposizioni di ciascun cointestatario autorizzato a operare separatamente.

Questo non rende però lecita l’operazione, che sposta la questione dal piano bancario a quello, ben più serio, penale e civile. A ribadirlo è una illuminante ordinanza del

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Tribunale di Rovigo, che ha autorizzato il sequestro conservativo dei beni di un coniuge che aveva indebitamente sottratto fondi dal conto comune.

Quando un’operazione bancaria diventa reato

La chiave di volta per comprendere la questione risiede nella distinzione tra la titolarità del potere di firma e la titolarità della proprietà delle somme. Avere la facoltà di operare separatamente su un conto cointestatoconferisce al singolo la legittimazione a impartire ordini alla banca, ma non lo rende proprietario dell’intera giacenza.

Il reato di appropriazione indebita si configura proprio quando un soggetto, avendo il legittimo possesso di un bene altrui (in questo caso, la quota di denaro del cointestatario), se ne appropria come se fosse il proprietario esclusivo. Trasferendo sul proprio conto personale una somma che eccede la propria parte di spettanza – che per legge si presume essere il 50% in assenza di prove contrarie – il correntista compie esattamente questo: un’appropriazione illecita di denaro altrui. La mancanza del consenso, espresso o tacito, dell’altro titolare è l’elemento che fa scattare l’illiceità penale.

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Il ruolo neutrale della banca: perché non può intervenire

Molti si chiedono perché la banca esegua un’operazione che può configurare un reato. La risposta sta nella natura del contratto di conto corrente cointestato a firme disgiunte. Con tale accordo, i titolari conferiscono alla banca il mandato di eseguire le operazioni richieste da ciascuno di loro, separatamente.

La banca ha un’obbligazione verso i clienti e il suo unico dovere è verificare la legittimità formale della richiesta (cioè che provenga da un titolare con potere di firma). Non ha né il potere né il dovere di indagare sulle ragioni del trasferimento o sulla ripartizione interna della proprietà dei fondi. Bloccare l’operazione costituirebbe un inadempimento contrattuale da parte della banca stessa. La controversia sulla proprietà del denaro è una questione che riguarda esclusivamente i rapporti tra i cointestatari, da risolvere in sede civile e penale.

La tutela per chi subisce il torto: il sequestro dei beni

Una volta che il bonifico illecito è stato eseguito, la vittima non è priva di tutele. Come stabilito dal

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Tribunale di Rovigo (ordinanza del 12 settembre 2025), chi ha subito l’appropriazione può ricorrere d’urgenza al giudice per chiedere un sequestro conservativo ai sensi dell’articolo 671 del codice di procedura civile.

Questa misura cautelare permette di “congelare” i beni (mobili, immobili, crediti e persino lo stesso conto personale del responsabile) di chi ha commesso l’illecito, fino a coprire l’importo sottratto. Lo scopo è di garantire che, al termine della causa, la vittima possa concretamente recuperare il proprio denaro, impedendo che il responsabile possa nel frattempo disperdere il suo patrimonio. La decisione si basa sulla presunzione di quote uguali stabilita dagli articoli 1298 e 1854 del codice civile, che permette al giudice di quantificare immediatamente il danno subito e l’ammontare da porre sotto sequestro.

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